Il mondo macina storia.

E l’uomo, dall’alto della sua piccolezza, ha sempre tentato di opporvisi attraverso la memoria.

Per trasmetterla, difenderla, ha utilizzato nel corso dei secoli tutte le lingue che aveva a disposizione, partendo da un dato di fatto oggi non più così certo: testimoniare il proprio tempo con una lingua sola rischia di essere troppo poco. Per questo alla cronaca avvicinava le lingue dell’arte, per generare dal vissuto qualcos’altro, un’opera che sapesse dire di più e meglio, gareggiando con il tempo.

Siamo quello che siamo grazie a questo esercizio. Il progresso, la stessa civiltà, non esisterebbero senza questa scommessa in eterno divenire.

L’artista, l’uomo, ne farebbe a meno, certo. Se ne starebbe volentieri a cullare i suoi demoni, a scrivere di sé e per sé, ma se diventa testimone, se la storia lo viene a cercare, non può tirarsi indietro. Basta guardare al Novecento. Primo Levi aveva forse qualche possibilità di rifiuto? O Ungaretti? O Gadda? Si potrebbe continuare a lungo.

Non ci si mette a disposizione della memoria per assecondare l’ambizione di cambiare il futuro, almeno non nella misura che vorremmo. Basta guardare i fatti recentissimi per averne certezza.

A una pandemia, la prima globale, l’uomo ha avvicinato il caro vecchio adagio di sempre: la guerra. Ogni generazione nasce analfabeta.

Ma è una questione da uomini.

È dare alla vita propria e a quella altrui la misura gigante che gli compete.

È testimonianza a favore di chi non potrà mai farlo.

Ancora di più: è onorare la morte di chi rischia di essere dimenticato.

Coraggio, umiltà, umanità

Non stupisce che nel presente e recente passato alcune fra le prove più sincere di letteratura militante siano arrivate da territori esterni alla letteratura tout court. Ci vuole coraggio, umiltà, umanità.

Quella del nembrese Gigi Riva e del suo Il più crudele dei mesi, Mondadori.

Riva non è certo un estraneo al mondo della parola, anzi, ha esplorato quasi tutte le forme di racconto contemporaneo, è stato egli stesso testimone di luoghi e vicende della storia ultima, da inviato e reporter, in particolare ha vissuto in prima linea tutti i conflitti balcanici. Proprio all’ex Jugoslavia è legato L’ultimo rigore di Faruk, per Sellerio, libro che lo ha fatto conoscere al grande pubblico, in cui investiga il rapporto morboso tra potere e calcio. Oggi è editorialista dell’Espresso. Diverse prove di valore date alle stampe, dunque, ma nessuno si offenda se questo sua ultima fatica appare per lingua e tensione, e tempismo, ben oltre i suoi trascorsi.

Gigi Riva è di Nembro, località sconosciuta sino all’esplosione della pandemia di Covid-19 nel nostro paese.

La quarta di copertina dice tutto: «Sulla lapide a ricordo dei caduti davanti al cimitero di Nembro ci sono 126 nomi per la Prima guerra mondiale, 98 per la Seconda. Di Covid-19, tra la fine di febbraio e aprile 2020, sono 188 persone, 164 a marzo».

Nembro ha pagato in modo straordinario il virus e tutti quegli errori di valutazione che nei primissimi giorni dalla sua scoperta ne aumentarono a dismisura la diffusione, in primis, presumere che in Italia non circolasse prima dei casi esplosi in Cina.

Il romanzo di Riva ricostruisce frammento per frammento tutto quello che è avvenuto, con una lingua asciutta, carica di dolore come può essere quella di chi racconta il suo paese natale devastato da un nemico invisibile. Ecco l’unicità di questo romanzo. Una sovrapposizione assoluta tra parola e vita, morte e amori.

Riva rispetta la drammaturgia degli eventi, li riassume nella loro drammaticità, a partire da Mauro Lazzaroni, il primo morto di coronavirus di Nembro. È straziante il resoconto biografico delle vite sacrificate al virus, i fatti piccoli e grandi che li riguardano dentro una collettività nota a sé stessa, collaborativa e affettivamente coesa. Il Lazzaroni, per esempio, aveva fondato a metà degli anni ’60 il Motoclub Careter, uno dei primi nembresi a dare lustro al paese.

Anche se poi, nella storia del coronavirus a Nembro, un altro soffierà la palma di prima vittima “ufficiale” al Lazzaroni. Franco Orlandi, ex camionista.

Il 23 febbraio 2020

Nel resoconto drammatico degli avvenimenti è dato ampio risalto a tutto ciò che accadde prima e dopo la fatidica data del 23 febbraio 2020, giorno in cui venne data la notizia: «Due casi di coronavirus, chiuso l’ospedale di Alzano Lombardo». Notizia che ci mise pochissimo a diventare virale e a fare il giro del mondo.

Questo giorno, il 23 febbraio, diventa per Nembro uno spartiacque.

Da una parte tutti quelli che subodorarono la stranezza di una patologia in circolazione ben prima dei casi di Covid-19 segnalati dalla stampa a Wuhan in Cina, come il medico di base Massimo Pandini, che iniziò a parlarne sin dal dicembre del 2019. Dall’altra, gli errori di valutazione delle istituzioni nazionali e dell’Organizzazione mondiale della sanità. Fu proprio in ottemperanza a una direttiva Oms che il ministero italiano corresse la prima raccomandazione data al territorio, «segnalare sintomi anomali senza tenere conto della storia di viaggio» del 22 gennaio, in «si segnalino solo persone che hanno avuto contatti con la Cina», esattamente cinque giorni dopo. Fu questo cambio in corsa a dare al virus il vantaggio smisurato di un mese. Un mese per circolare silenziosamente, per mietere morte.

In quel mese funesto, inconsapevole, la vita sospesa di chi non sa cosa li aspetta. Tutta la bergamasca chiuse per Atalanta il 19 febbraio del 2020, un mercoledì di coppe e di campioni. Atalanta–Valencia, ottavo di finale di Champions League. Migliaia di persone, di padri e figli, di famiglie intere, a inseguire la storia. Storia d’amore calcistico che è poi amore per una terra. La Dea. Emblema insuperabile.

Il risultato andò oltre i sogni di grandi e piccini. 4-1 per l’Atalanta.

Il pubblico, ignaro, scoprirà solo successivamente quanto pagherà ogni singolo abbraccio dato durante la partita.

Poi, ecco il 23 febbraio, il giorno della notizia.

Ad Alzano Lombardo due casi di coronavirus.

La parola non svanisce

Ma non è ancora momento di panico. Si vive ancora in precario equilibrio tra speranza e disperazione, circola la notizia che il virus sia selettivo, inoltre la famosa laboriosità della gente bergamasca non vuole cedere alla paura.

In quei giorni si compiono gesti che avranno conseguenze drammatiche, gesti fatti in buona fede, non per questo meno deleteri. Come il post, datato 26 febbraio, in cui il sindaco di Bergamo Giorgio Gori pubblicò una foto con sua moglie in pizzeria scrivendo che «le notizie della diffusione del virus e le prescrizioni che a partire da domenica hanno limitato tanti aspetti della nostra vita hanno generato un clima di preoccupazione che è andato molto al di là del necessario».

Gori, in seguito, ebbe l’onestà di pentirsi del post pubblicato.

In quelle stesse ore, all’ospedale Papa Giovanni di Bergamo si consuma il primo tragico incrocio di destini. Un padre e un figlio.

Antonio Ardenghi, anni 82, detto “il Roccia” per il fisico straordinario, e suo figlio Beppe, ricoverati a distanza di poche ore. Il figlio riuscirà a riprendersi, il padre, il Roccia, no.

Ma siamo ancora soltanto agli inizi della storia e del romanzo.

Dopo, un giorno dopo l’altro, tutti capiranno la portata di quello che sta accadendo.

Dopo ci sarà la conta dei morti, le famiglie decimate, il senso di impotenza di chi vorrebbe fare, ma nulla può.

Si diceva che il mondo macina storia.

La dittatura degli algoritmi ha esacerbato il consumo dell’orrore, non che l’uomo non offra costantemente il peggio di sé.

Alle immagini di Bergamo attraversata dai camion militari ricolmi di bare si stanno sovrapponendo quelle di guerra dall’Ucraina.

Di Nembro, Bergamo, l’Italia, di tutte le vittime di Covid-19 nulla rischia di rimanere.

Ecco perché servono opere del genere, ecco perché questo Il più crudele dei mesi di Gigi Riva risulta quanto mai necessario.

La parola, a differenza dell’immagine, non svanisce.

Come non svaniscono i morti, se i vivi non smettono di ricordarli.

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