Le nuove Indicazioni Nazionali del ministro Valditara generano un contrato lacerante nel modo di insegnare le due materie: integrazione con varie fonti e mezzi per «allargare lo sguardo sul mondo» nelle ore di geografia, un metodo invece tradizionalissimo e legato solo all’Occidente per la storia
Come il dottor Jekyll e mr. Hyde, le Indicazioni Nazionali (la bozza di documento sui programmi per elementari e medie, pubblicata sul sito del ministero dell’Istruzione l’11 marzo) di storia e geografia convivono, una accanto all’altra, in perfetta dissonanza. Compararle ci aiuterà a capire, da una parte, come si scrive un buon documento didattico e, dall’altra, il senso dell’operazione di politica culturale tentata dal documento di storia.
Gli incipit
Gli incipit sono illuminanti. Scrivono i geografi: «Dopo aver concorso in passato a “fare gli italiani”, la geografia ha oggi il compito di allargare lo sguardo sul mondo, per abbracciare l’idea di essere parte di relazioni e legami a più scale, da quella locale a quella planetaria». Rispondono gli storici con una dichiarazione che già corre sul filo dei social: «Solo l’Occidente conosce la storia».
A cosa si riferisce questa affermazione, così icastica da apparire una provocazione? Al passato? Per nulla, rispondono tanti colleghi, e in particolare gli orientalisti, che stanno riversando in rete bibliografie di autori cinesi, indiani, persiani, arabi che hanno descritto i loro tempi andati in modi certo diversi da Tucidide, ma col medesimo proposito di comunicare ai contemporanei fatti degni di essere ricordati.
Al presente? No, come ammettono gli stessi autori del documento facendo notare che oggi si fa ricerca storica e si studia questa disciplina in tutto il mondo. Da un certo punto di vista, però, si potrebbe riconoscere agli autori delle Indicazioni una qualche ragione, se riflettiamo sul fatto che in Occidente il processo che portò alla formazione della storia professionale fu strettamente collegato a quello che produsse quel racconto storico particolare che doveva contribuire alla costruzione di una comunità nazionale: la genealogia della nazione, o romanzo nazionale, come viene comunemente indicato nella letteratura scientifica.
E che questa sia l’interpretazione corretta, ce lo dicono a chiare lettere sia il testo delle Indicazioni, sia le dichiarazioni più volte ribadite da Ernesto Galli della Loggia, coordinatore del gruppo di storia, e da Loredana Perla, presidente della Commissione. In pratica, a differenza dei geografi, questi vorrebbero che la storia rimetta a nuovo il compito ottocentesco di «formare gli italiani», senza curarsi della necessità, inderogabile per le giovani generazioni (ma non solo), «di allargare lo sguardo sul mondo».
E, poiché dichiarano che la conoscenza del mondo è fuori dalla portata degli allievi della primaria e della secondaria di primo grado, aprono un interessante problema di didattica: com’è possibile che gli stessi allievi siano considerati incapaci di fare in storia le medesime operazioni che eseguirebbero tranquillamente in geografia?
Un lacerante contrasto
Dal punto di vista epistemologico il contrasto è, però, lacerante. Per i geografi la loro disciplina è una scienza provvista di un suo codice, che si insegna mediante attività operative ben controllate. Per gli storici, invece, la storia è una “genealogia della nazione”, ossia un racconto che tecnicamente rientra nel campo dell’invenzione della tradizione e si comunica attraverso altri racconti (lezioni) che coinvolgano gli allievi «emotivamente e sentimentalmente, facendo uso di episodi particolari anche aneddotici».
Un modo di concepire la disciplina in sintonia con le fasi introduttive al ragionamento storico, nelle quali ai bambini di sei-sette anni andrebbero raccontate «a mo’ di favola» le vicende dell’unificazione italiana col suo corteggio di eroi.
Purtroppo per il gruppo di storia, nemmeno in questo campo l’Occidente può vantare un’esclusiva. Infatti, la possibilità di usare la storia in funzione identitaria ha ingolosito molti, in giro per il mondo.
In particolare, gli stati dell’Europa orientale, dopo la caduta del comunismo, si sono dotati di programmi identitari, molti dei quali ispirati esplicitamente al Risorgimento italiano, scatenando così un pullulare di nazionalismi che non sembrano una medicina efficace per attenuare conflitti, esplosi o latenti.
Qui, però, notiamo una differenza che esaspera ancora il confronto fra storia e geografia. Molti stati, infatti, pur nella loro scelta identitaria, fanno appello a strumentazioni didattiche a volte avveniristiche, come, per esempio, la Polonia che inserisce nel curriculum un videogioco che insegnerà ai piccoli polacchi l’amore per la loro patria.
Le Indicazioni italiane, al contrario, fanno di tutto per sconsigliare soluzioni didattiche, dal ricorso ai «grandi temi», all’uso dei documenti che prevederebbe discussioni storiografiche troppo sofisticate per gli allievi, ai mezzi audiovisivi e digitali, considerati «non in grado di promuovere il pensiero critico e l’analisi storica».
Un contrasto evidente con la disciplina sorella, nella quale si sollecita l’uso di «fonti scritte, testi letterari, opere d’arte, fotografie, audiovisivi, prodotti multimediali e dati statistici» e, naturalmente, di ogni genere di carte, anche digitali e del GIS.
Gli insegnamenti “tradizionali”
In geografia la didattica innerva il testo. In storia è, semplicemente, bandita. Questa osservazione getta luce sulla politica scolastica degli autori del documento di storia: legittimare quella massa di insegnanti che, aliena da qualsiasi innovazione, si attesta saldamente nell’uso pressoché esclusivo del manuale e della lezione, magari sognando di parlare agli allievi dall’alto di una predella, come Galli della Loggia suggeriva in una lettera indirizzata alla ministra Letizia Moratti (Corriere della sera, 18 giugno 2005).
Sono questi insegnanti “tradizionali” che potranno salvare la scuola dalla catastrofe causata dagli improvvidi innovatori, che – da don Milani a De Mauro – hanno invaso le aule: queste Indicazioni non sono altro che la messa in pratica di ciò che Galli Della Loggia e Loredana Perla scrivono nel loro pamphlet Insegnare l’Italia (Morcelliana, 2023).
Così, ai docenti si prospetta un futuro quasi fantascientifico. Dovranno essere futuristici dottor Jekyll didattici nell’ora di geografia, e tramutarsi nell’ora successiva in mr. Hyde, cantori di una storia di due secoli e mezzo fa. Come annunciato, la Commissione si apre alle consultazioni e al dibattito.
Una buona decisione, specialmente se ci sarà una disposizione ad accogliere i suggerimenti. Il mio è che le due discipline sorelle siano accomunate da un solo incipit: «Dopo aver concorso in passato a “fare gli italiani”, la geografia e la storia hanno oggi il compito di allargare lo sguardo sul mondo …».
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