Uno strumento d’oppressione: così essere soli è un tema politico

«Così come una persona che nasce in una famiglia criminale dovrà avere le idee particolarmente chiare ed essere molto determinata per non fare gli errori che la faranno finire in carcere, una persona che diventa madre dovrà fare molta attenzione per non lasciarci la pelle». Questo Nostra solitudine, Mondadori, è il libro più radicale di Daria Bignardi, che riprende il tono autobiografico di Non vi lascerò orfani (2009) e lo usa per illuminare i temi del nostro tempo – si apre con un racconto del genocidio in Cambogia, e il museo della guerra di Ho Chi Minh, e continua in Cisgiordania con un’intervista ai prigionieri palestinesi rilasciati dalle carceri israeliane. Eppure non si rintraccia nessuna forma di durezza nelle pagine, tanto che potrebbero passare inosservati i collegamenti e i passaggi che rendono il libro “radicale” e spietato nel collegare i traumi nostri a quelli del mondo in cui viviamo: «Se io mi sento in esilio per nebulosi motivi genealogici come dovrebbe sentirsi Wael Al-Dahdouh?» (caporedattore di Al Jazeera da Gaza, la moglie e due figli morti sotto i bombardamenti). Una domanda che forse in questi anni ci siamo fatti in tanti. Non è un accostamento fatto per sminuire le nostre minori sofferenze ma per inquadrarle meglio, una visione aerea che ci fa sentire meno unici (quindi meno soli) ma che include anche le nostre solitudini e malinconie. Le definizioni La frase riportata sopra sulle donne e sulle madri compare in un capitolo dedicato alla parola “prigioniero”. Non ci sono titoli, ma definizioni di dizionario di alcune parole. Al capitolo Prigioniero, il lettore ci arriva dopo una storiella divertente sulla figlia di un’amica. La bambina vent’anni fa fece un disegno sulla madre («la più buona tra le mie amiche buone») a scuola, un disegno in cui compariva questa madre con tanto di didascalia «mia mamma mi picchia sempre». «Hai capito la Marghe? Per un pelo non mi ha fatto finire in galera». E ancora prima, il proposito di smettere di cucinare: «“Sssschiava!”, urlava mia madre, “sono una schiava” Noi ridevamo, ma ora so che aveva ragione». A ritroso, il lavoro di cura – inutile forse, il mandarino, il sugo fresco, il primo e il secondo – che ha consumato l’autrice tanto quanto il lavoro fuori casa – è la combinazione, l’ansia di fare tutto male: «Anche i loro padri erano disponibili a esserci, se potevano, ma io c’ero anche se non potevo». Ci sta dicendo che le donne sono prigioniere? Oppressione ed emozioni È un libro sofisticato perché è attraverso la sua struttura che mette in relazione gli stati di oppressione sistemici con gli stati emotivi solitari, malinconici, e – operazione più complessa, ma riuscita – i nostri stati malinconici con «i traumi giganteschi di chi è sotto le bombe, di chi è oppresso, povero, svantaggiato». Ci vergogniamo a dire che stiamo male per i nostri piccoli traumi, ma siamo toccati proprio da quello che succede nel mondo, non esiste una scatola nera inespugnabile che è la nostra interiorità: «Sentirsi tristi, o soli, non è una questione privata». La nostra solitudine è connessa e accentuata dalla sofferenza che accade dall’altro lato del mondo, o fuori dalle nostre case – in questo senso il libro dialoga con l’ultimo Ogni prigione è un’isola, ma è più esposto perché usa la propria storia personale come materia. Si apre in Vietnam, con una riflessione sulla globalizzazione, e una domanda: al figlio, con cui sta viaggiando, non manca una «società non globalizzata»? È una domanda scomoda ancora oggi, che il modello economico neoliberale, la scuola di Chicago, e la sua fiducia nel mercato globalizzato è stata messa in discussione. Questo è un libro con la voce di Daria Bignardi, quindi la costruzione, la struttura, gli accostamenti sono nascosti dietro una capacità di storytelling fuori dal comune, per cui nulla pesa, nulla angoscia più di quanto riusciamo a sopportare. Il racconto delle donne La condizione femminile, raccontata su tutta la scala del privilegio – dalla donna europea che lavora alla detenuta, alla ex-prigioniera palestinese incontrata in Cisgiordania – è solo una delle tematiche del libro. Ma nella sua vicinanza alla condizione di prigionia è esemplificativa, perché contiene anche il tema del trauma – l’esperto di EMDR le dirà che il trauma si crea da feti, e subito il contraltare della narratrice: se ce la fanno a vivere i nipoti dei sopravvissuti ai genocidi posso farcela anch’io. Non è un attacco alla psicologia, ma una volontà di andare a cercare le risposte oltre sé stessi, nel campo della sociologia. Anche il divorzio – «senza quella trave sarei morta senza cercare di capire la storia della mia solitudine» – è un punto di partenza per la ricerca di un trauma i cui confini non sono quelli dell’io, ma quelli del noi. Al trauma dell’abbandono fa capo la storia di Caroline Darian, figlia di Gisèle Pelicot, la donna narcotizzata e fatta stuprare dal marito da molti uomini. Caroline, con cui Bignardi parla a lungo, le racconta che si sente abbandonata perché ha perso entrambi i genitori: il padre è il diavolo e la madre un’icona ormai lontana che deve aiutare sé stessa. Quella del male estremo è la quarta dimensione, secondo la scrittrice Neige Sinno, «un paese limitrofo (…) quasi sovrapposto al nostro». È su questa vicinanza che Bignardi si muove con il suo racconto, escludendo la separazione netta non solo fra il bene e il male, ma anche fra chi sta bene e chi sta male. Ma chi ha visitato questo paese, quello dell’orrore, si riconosce silenziosamente. Ci si finisce dentro una prima volta e poi non se ne esce più. «Non riesco a immaginare una solitudine peggiore della sua», scrive di Caroline Darian, e poi con un altro montaggio significativo – sono tutti significativi, è un libro costruito sulla costruzione l’accostamento e il montaggio almeno quanto non lo sia sulle parole – passa agli scambi di prigionieri fra Israele e Palestina. «Lo psi mi rassicura rispetto ai pensieri ossessivi sui detenuti palestinesi. “E se anche c’entrasse col suo, di trauma, che problema sarebbe? Tutti noi seguiamo una strada». Interconnessi Anche questo costruisce il leitmotiv del libro, l’interconnessione tra quello che succede nel mondo e la nostra interiorità. Della psicologia rifiuta solo la divisione contemporanea fra dentro e fuori, corpo e mente, che porta al funzionalismo del «puoi solo cambiare te stesso». In ogni incontro di questa storia, Daria Bignardi cerca risposte diverse all’unica grande domanda: cos’è la solitudine, e quali sono le sue cause? C’è solitudine in ogni situazione di oppressione, nei rapporti gerarchici che vedono i «molti» contro «pochi» – popoli, culture, di generi e di gruppi politici, ma anche persone singole. E la solitudine è uno strumento dell’oppressione, forse lo strumento più prezioso e efficiente, complementare alla violenza. Nella solitudine è più facile cadere in rapporti oppressivi, anche personali. E politicamente tenere isolati e soli i nemici è il modo migliore per annientarli. Nostra solitudine riesce a portarci in luoghi dove anche noi vorremmo andare, ma che forse per paura non frequentiamo. Nostra solitudine (Mondadori 2025, pp. 168 pagine, euro 19) è un libro di Daria Bignardi