Gianrico Carofiglio è autore, insieme alla figlia Giorgia Carofiglio, del podcast Coffe for two: ogni lunedì solo sul sito di Domani un episodio dedicato a un tema sempre nuovo di confronto tra genitori e figli. 


Benché, soprattutto negli ultimi anni, la narrativa gialla abbia conosciuto una piccola folla di commissarie, poliziotte e detective donne, professioniste o dilettanti, sono rari quanto notevoli i casi di giallisti uomini che si cimentino nell’impresa di inventarsi delle investigatrici: quasi sempre, a crearle sono autrici. Ora, dopo l’ex agente segreto Sara di De Giovanni, è appena arrivata in libreria Penelope Spada, che condivide il nome non solo con l’eterna moglie di Ulisse, destinata a una trama da tessere e disfare senza sosta, ma anche con Penelope Poirot, nipotina di Hercule dal fisico periforme e dal fiuto infallibile inventata dalla scrittrice Becky Sharp (pseudonimo ingannevolmente anglosassone di Silvia Arzola).

Spada è la protagonista dell’ultimo romanzo di Gianrico Carofiglio, La disciplina di Penelope (Mondadori). Dopo anni di indagini dell’avvocato Guerrieri, finalmente, a dirigere il gioco è una donna: e una donna irregolare, un ex pubblico ministero la cui carriera è stata interrotta da un imprecisato incidente. Ha un passato oscuro, quasi da noir, ma non è una femme fatale, pericolosa, affascinante magari, ma pur sempre comprimaria: Penelope, che odia il nomignolo Penny ma ci si è rassegnata da un bel pezzo, è una protagonista, è la protagonista.

Ha uno sguardo sardonico ma malinconico quanto serve, una vita promiscua e una debolezza esagerata per l’alcol; un ufficio sgarrupato, nel retro di un bar, e una Milano piena di brume a farle da sfondo. Ancora più interessante è il fatto che le sue avventure siano raccontate non dalla distanza di una terza persona, ma in una prima persona rauca e ironica, che gioca con le regole del genere (e di genere) e riesce a farci entrare immediatamente nella vita di questa donna ammaccata dalla sua conoscenza disincantata del mondo, a farci affezionare alla sua voce che non ha niente di idealizzato.

Il fascino irresistibile del giallo

Insomma, viene da pensare: com’è liberatorio, il giallo, forse l’unico genere che con le sue leggi, i suoi tòpoi, la sua ben organizzata anarchia, permette di giocare per davvero.

In effetti mi sono trovata spesso a domandarmi cosa mai renda tanto irresistibili i romanzi gialli a una folta schiera di lettori fra le cui fila mi sono iscritta da bambina, quando ho conosciuto Sherlock Holmes. Penso che la risposta abbia a che fare con la deliziosa contiguità che il giallo stabilisce fra lettura e gioco; oltre che, certo, con una miriade di ragioni ben più raffinate, e legate al riconoscimento inconscio, sottile eppur potente, di somiglianze fra lo schema del giallo classico e quello, ancestrale, del sacrificio umano.

Ma il piacere di cercare di risolvere il caso è innegabile; e, secondo me, riavvicina la lettura alla sua vocazione più profonda (pur se talvolta considerata meno nobile): quella del puro intrattenimento. Le Venti Regole per scrivere romanzi polizieschi che S. S. Van Dine stilò nel 1928 per The American Magazine sono la perfetta dimostrazione della natura giocosa del giallo: è per permettere al lettore una partita alla pari, che il giallista non può esercitare inganni o sotterfugi. Se si gioca, si gioca pulito, come ben sanno gli appassionati di Cluedo, temprati da infiniti pomeriggi di competizione investigativa, di bluff e risate nell’immaginaria villa in cui a ogni nuova mano la fisionomia del delitto cambia secondo lo scompaginarsi delle carte.

E proprio perché la tentazione di sciogliere il mistero è così magnetica, il detective – più del colpevole, più della vittima, più dei sospetti – è il personaggio fondamentale: catalizza identificazione e competizione, ci illumina la strada e ci sfida.

Personaggi immortali

Tant’è vero che il genere giallo nasce proprio con la nascita dei primi detective indimenticabili: l’Auguste Dupin dei Delitti della Rue Morgue di Poe, poi lo Sherlock Holmes di Arthur Conan Doyle; con lui – pedante, geniale, cocainomane – si inaugura la caratterizzazione idiosincratica dell’investigatore e dei suoi metodi scientificamente fascinosi (tanto che il paradigma indiziario di Holmes arriverà a influenzare l’indagine storica di Carlo Ginzburg, come racconta il bellissimo saggio Spie).

Un modello di straordinario successo, a cui dobbiamo una galleria di magnifici personaggi letterari, dalle creazioni di Agatha Christie – fra cui spiccano Poirot, con il suo puntiglio belga e la cura maniacale per i propri baffi, e Miss Marple con l’aria da vecchietta pettegola, sferruzzante e innocente – fino al ruvido Maigret di Simenon o al buongustaio Montalbano di Camilleri; personaggi peculiari e ricorsivi, che difatti rimangono perfetti anche nel passaggio alla televisione seriale, in cui i detective classici vengono riassorbiti con fantasiose varianti che portano a creazioni originali, nate senza la paura di giocare con il cliché.

Come Colombo, impermeabile e strabismo, che lancia allo spettatore una sfida all’inverso, o Jessica Fletcher che, senza essere né una poliziotta né un commissario, bensì una professoressa d’inglese che scrive romanzi gialli ispirati alle sue indagini, con il suo fiuto adorabile e bisbetico di anziana signorina (in realtà vedova, ma con invidiabile routine di solitaria) ha traghettato il mito di Miss Marple da un secolo all’altro.

Intuito femminile

Perché non sempre a indagare, nei gialli, sono poliziotti o comunque professionisti: c’è un fiorente filone di dilettanti dall’intuito infallibile e perciò tanto più sorprendente per i lettori, chiamati a identificarsi con ancora maggior foga; e questi dilettanti sono, spesso, donne. Se Hercule Poirot è un investigatore a tutti gli effetti, Miss Marple è una vecchia signora troppo acuta e curiosa per non soffermarsi sui succulenti casi delittuosi che casualmente le capitano sotto gli occhi; ma non è certo una poliziotta ufficiale.

Proprio come la oggi meno celebre Nina, poliziotta dilettante inventata da Caterina Invernizio a cavallo fra Otto e Novecento: una giovane operaia che investiga sull’omicidio del suo fidanzato. Vani Sarca, creatura di Alice Basso, è un asso dell’introspezione, ma di mestiere è una ghostwriter caustica e asociale; l’Erika Falck di Camilla Läckberg, scrittrice, è sposata a un agente di polizia che senza di lei difficilmente caverebbe un ragno dal buco.

Ci sono, poi, le professioniste dell’indagine, un ben nutrito gruppetto di donne cui il giallo permette una libertà, un trasformismo, una spavalderia e una varietà di tratti stranamente impensabili in altri generi letterari: l’anatomopatologa di Patricia Cornwell, Kay Scarpetta, e quella di Alessia Gazzola, Alice Allevi; la tenebrosa Giorgia Cantini di Grazia Verasani, titolare di un’agenzia investigativa, e una pletora di polizotte e commissarie, dure o tenere a seconda dei casi, buffe, sensuali, goffe, complicate a modo loro: l’ispettrice Petra Delicado, creata da Alicia Giménez Bartlett, il sostituto procuratore Imma Tataranni di Mariolina Venezia; la Lolita Lobosco di Gabriella Genisi, e la Teresa Battaglia di Ilaria Tuti; una delle ultime arrivate è la commissaria Lisa Mancini, trentatreenne che abbandona una carriera internazionale per ritirarsi in un paesino di provincia, protagonista di Tre madri di Francesca Serafini (appena uscito per La nave di Teseo).

E davvero viene da pensare che il giallo permetta, agli autori e alle autrici che le creano, di giocare con le loro investigatrici con una libertà sfrontata, che dispensa, una volta tanto, dall’imperativo interiorizzato a creare donne esemplari. Queste detective sono imperfette, divertenti, anarchiche, libere; colpisce, però, quanto spesso siano create da scrittrici, e quanto di rado da scrittori. Tanto che viene da chiedersi se non ci sia, dietro questo dato di fatto, il solito antico pregiudizio per cui l’universale sarebbe maschile; quel pregiudizio a causa del quale si parla di scrittura femminile quando a scrivere è una donna, ma non si è mai sentita nominare una scrittura maschile, e ci si aspetta che siano sempre, o quasi, le donne a raccontare le donne.

È bello vedere che, invece, finalmente, le cose stanno cambiando: ben venga Penny Spada a dimostrarlo.


Gianrico Carofiglio è autore del libro La disciplina di Penelope, edito da Mondadori

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