La prima notte non ne avevo ancora visto nessuno e così, a letto, sgranocchiai un sonnifero come avrebbe fatto un topo: con gli incisivi, a piccoli colpi, ascoltando il sonoro frammentarsi del farmaco dentro la mia bocca. E il giorno dopo l’obiettivo rimase quello: vederne uno attraversare la strada; per questo presi una bici, per passare vicino ai tombini, e anche l’indomani, e per tutta la settimana fino al primo ritorno di Sara, che il venerdì sera poggiò la valigia sul pianerottolo e venne ad abbracciarmi. Sei stato bene, chiese, Ora stiamo insieme questo fine settimana. L’annusai, ma i capelli neri striati di grigio non sapevano di nulla e lasciai andare l’abbraccio.

A cena parlammo della casa, di quel bel bilocale che ora non abita più nessuno. Volevo dirle Non è così Milano, non nella mia testa. Volevo una stanza sovra prezzata, una roba alla Oliver Twist, e invece avevo una casa intera e grande, luminosa, con libri che mi piacevano, piante ovunque e bei quadri alle pareti: un sogno boho-chic della miglior borghesia francese. Per un solo mese, certo, e nei fine settimana dovevo condividerla con Sara, la vera inquilina in affitto.

Nessun roditore

(cc) BY-SA 3.0

L’indomani andammo a un mercato di anticaglie sui Navigli e parlammo dei suoi amori passati. Sara si era innamorata di un giornalista famoso, a sua volta fidanzato con una scrittrice famosa, ed era finita male; lasciandosi, dopo che si era sbronzata per affrontarlo, Sara aveva vomitato in metro. Risi, poi guardai sul naviglio sperando in una grossa pantegana o in una nutria ma niente, nessun roditore, e in bocca mi tornò il sapore lasciato dal sonnifero al risveglio. E Rebecca?, fece lei. Le spiegai che stava andando a Torino, che doveva finire di istruirsi, e l’occhio mi ricadde ancora sull’acqua dove speravo di vedere sguazzare un topo gonfio di lerciume. Offrii a Sara il braccio e insieme, come se ci conoscessimo da una vita – la sensazione è rimasta quella – andammo a cena.

Perlustrazioni

In mezzo alla settimana ero quasi sempre solo e andavo a caccia di topi. Quando nevicò pensai che il freddo li avrebbe uccisi tutti. M’informai, ma risultò che in condizioni disagianti dovute alle basse temperature era più probabile che, incredibilmente, entrassero in casa; per di più la neve se ne andò in fretta, e potei presto riprendere le mie perlustrazioni. Passeggiavo per il quartiere ben oltre i suoi confini borghesi ed eleganti, scavalcavo la storica sede del Politecnico, e mi avvicinavo ai parchi socchiudendo gli occhi per scrutare meglio. Vidi molti corvi, animale che un tempo mi era piaciuto molto, cani, due soli gatti, ma nessun roditore. Una notte m’appostai a una ventina di metri da dei bidoni dell’immondizia stracolmi e attesi. Fumai molto lentamente, una boccata ogni minuto, per fare meno rumore possibile, ma non se ne palesò nessuno. Rientrai nel bell’appartamento e sbattei la porta: volevo che i miei vicini tendessero le orecchie. Evitai di leggere e mi misi subito a letto, dove sgranocchiai l’ennesimo sonnifero e spensi presto le luci. Il proprietario sa che sei qui, che ti sto ospitando, ma non ho detto per quanti giorni, mi aveva detto Sara.

A lavoro raccontavo che per essere appena arrivato in città ero stato accolto molto bene, che la casa era grande. I colleghi concordavano e parlavano delle prime case in cui avevano vissuto a Milano, delle sveglie alle sei per prendere i mezzi e della nuova pokeria sotto casa che restava aperta fino all’una del mattino. Scendevamo spesso a fumare e io, mentre annuivo alle chiacchiere, guardavo i bidoni dell’immondizia nel cortile che, di giorno in giorno, riempivo con gli scarti del pranzo. A Rebecca non potevo parlare dei topi: a Parigi, quando ne avevamo visti tre giocare a rincorrersi sulla panchina di fronte a noi, si era disgustata al punto da interrompere il nostro bacio nell’XI arrondissement. Forse avrei potuto parlarne a mio padre, che due anni prima avevo aiutato a svuotare il sottoscala e che per primo si era accorto del nido abbandonato in un vecchio mobile. I ratti avevano lasciato due cose soltanto: batuffoli di cotone e pelo mescolati a carta di giornale ridotta in straccetti; piccoli escrementi neri e duri. Quella volta avremmo potuto indagare, scoprire dov’erano finiti, ma la realtà è che ce ne eravamo presto disinteressati; in quel momento me ne pentii.

Spazzatura

E però adesso abitavo in una città che ogni giorno produceva tonnellate d’immondizia e aveva un sistema fognario esteso, capillare, in grado di assorbire ogni millilitro d’acqua e sporco. Coesistiamo coi topi da millenni, pensavo, Dove sono, perché da che sono qua a Milano, nella mia bella casa, non ne ho ancora visto mezzo? E così continuavo la mia ricerca, quartiere dopo quartiere, fino a spingermi in Moscova e in Sarpi, dove sbirciavo sul retro dei bar e dei ristoranti, trattenendomi fino all’una del mattino e sostando vicino ai cumuli di spazzatura che i turisti formavano vicino a una celebre ravioleria cinese. E che avrebbe pensato la gente di me, con bei stivaletti e un cappotto di tutto rispetto, se avesse saputo che ero venuto a Milano per i topi e non per un’offerta di lavoro? Questa domanda esisteva ma la tenevo a bada, e quando vecchi amici mi chiamavano per sapere come stesse andando io dicevo solo Bene, sto scrivendo, le persone sono carine, gentili, molte vanno di fretta ma alcune sono di cuore. Mentre quando sentivo Rebecca ricordavo che spesso ci eravamo dati appuntamento al parco delle nutrie, che lì ci eravamo baciati, e che sempre lì avevamo riso non sapendo dire se quei roditori non fossero in realtà topi muschiati. Vengo a trovarti, mi diceva lei al telefono. No, aspetta che mi trasferisca, qui sono ospite, le ribattevo prima di tergiversare e tornare al mio letto e allo sgranocchio di sonniferi.

A metà dicembre, di sabato, Sara mi chiese se avessi trovato un’altra casa. Le dissi di sì, ma che prima o poi sarei tornato a vivere nel quartiere, e finimmo a bere in un locale storico del centro parlando di quel che sarebbe venuto. Mi dispiacerà non trovarti più qua, disse, Ora che ho trovato un amico come te a Milano, e io concordai sentendo le fauci seccarsi e gli occhi prudere.

Nuovi figli

Il giorno dopo, andandosene, si fermò sulla porta e semplicemente disse di lasciarle le chiavi nella cassetta delle lettere al piano terra e di staccare il gas. Stai attento, disse. Annuii e quando la porta si chiuse, come prima cosa, andai a farmi una doccia. Il bagno, piccolo lungo e freddo, era il solo ambiente spoglio, dotato del minimo indispensabile, e per non vederlo evitai di accendere la luce. La doccia era in angolo: un piatto rialzato, una tenda, le manopole e il soffione. Nudo, aprii l’acqua, che prima, fredda, mi bagnò i capelli e poco dopo, calda, il petto e le gambe. Mi strofinai ovunque con cura, anche dentro le narici, e spensi il getto non appena sentii la chiave girare nella toppa all’ingresso e una voce lombarda e maschile chiamare Sara e dire C’è nessuno.

Poggiai le scapole all’angolo della doccia cercando di aderirvi, d’incassarmi. I passi da fruscio divennero suoni rotondi; li sentii andare verso la camera da letto, muoversi. Si fermarono davanti alla porta del bagno e io, d’istinto, scesi ancora più in basso. Toccai le natiche sui talloni, freddi e bagnati, e percepii il mio sesso intirizzito e spaventato, ma mi trattenni dal tremare e, solo, respirai più piano mentre ogni altro rumore veniva coperto dal brulicare della città fuori dalla finestra, da Milano che non aveva topi ma partoriva nuovi figli con la stessa frenesia.

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