Victor Gruen arrivò a New York nel 1938. Figlio della media borghesia ebrea di Vienna, socialista, si era laureato all’Accademia di belle arti di Vienna, la stessa che aveva respinto Adolf Hitler solo qualche anno prima.

Dopo l’annessione dell’Austria alla Germania nazista e nella stessa settimana di Freud, grazie all’aiuto di un amico travestito da SS riuscì ad arrivare all’aeroporto, raggiungendo poi gli Stati Uniti con, parole sue, «una laurea in architettura, otto dollari in tasca e nemmeno una parola d’inglese». E in più, socialista convinto.

Esuberante come i suoi capelli, che sembravano essi stessi una monellesca e strafottente sfida architettonica, Gruen, nei suoi primi tempi negli Stati Uniti continuò a fare quello che faceva a Vienna. Cabaret socialista, qualsiasi cosa questo potesse voler dire alla fine degli anni Trenta a New York. Poi ebbe un’idea. Prese un treno per Princeton e si fece scrivere una lettera di raccomandazione da Albert Einstein – oltre alla pettinatura, i due avevano molto in comune – e grazie a un fortunoso incontro per strada con un suo ex collega viennese, dove aveva in effetti fatto anche l’architetto, negozi e appartamenti più che altro, decise che era tempo di tornare al suo primo e forse unico talento.

La carriera fu veloce e inarrestabile come solo negli Stati Uniti può capitare, quando ti dice bene. Con il suo socio iniziò a disegnare negozi sempre più grandi e importanti, finché non ebbe un’idea. Quell’idea era il centro commerciale. O meglio lo shopping mall, come si dice in America. Un luogo rivolto verso l’interno e non l’esterno; le vetrine sarebbero state lunghe e anonime mura; gli specchi e le luccicanze sarebbero state all’interno.

Sarebbe stato un luogo adatto a camminare, pensato per camminare. Il più noto fu il Southdale Center, che aprì in un sobborgo delle Twin Cities, in Minnesota, una città nuova di zecca costruita giusto un piede al di là del raggio d’azione di un eventuale attacco atomico a Minneapolis. Era l’Ottobre del 1956, piena Guerra fredda.

Come ovvio, la parte meno commerciale del centro commerciale – già allora, sì – non venne realizzata. Avrebbero dovuto esserci appartamenti, scuole, servizi sanitari un parco e un lago. Non furono mai costruiti. Ma sarebbe stato sufficiente disporre i negozi su due piani, con balconate punteggiate da caffè sotto un tetto di piante pendenti e ben visibili dal piano terra, disegnare una grande piazza centrale al coperto e naturalmente le scale mobili, oltre la gigantesca gabbia per uccellini multicolori – antesignani dei led wall, vien da dire – per dare al progetto un successo gigantesco.

Gruen, l’uomo che aveva tre segretarie alle quali dettava alla velocità della luce nel suo duro inglese germanofono, che aveva la «mente veloce come il mercurio», come racconta il primo ritratto a lui dedicatogli da Fortune, da lì alla metà dei Settanta, avrebbe disegnato più di cinquanta centri commerciali sparsi per gli Stati Uniti, ispirandone più di mille. Secondo Malcolm Gladwell del New Yorker, Gruen è stato semplicemente l’architetto più influente del ventesimo secolo, nonostante le parole acri che gli dedicò Frank Lloyd Wright in visita a Southdale: «Downtown stava bene dove stava», disse, prima di abbandonare la scena del crimine.

Campione del mondo

Nel 2020 ad Arese, e più precisamente dove una volta stavano gli stabilimenti dell’Alfa Romeo sorge il centro commerciale Il centro.

Alla prima visita, durante un weekend, è deserto e quasi totalmente chiuso; solo il supermercato, la farmacia e poco altro – peraltro posizionate in modo tale da essere facilmente isolabili. Come se l’architetto, Michele De Lucchi, avesse previsto la pandemia o semplicemente ubbidito a linee guida particolareggiatissime sulle dinamiche dei fluidi, in previsione di necessità di deflusso immediato o, al contrario, di accesso contingentato.

Il centro commerciale Il centro, oltre ovviamente solleticare gli amanti della ricorsività, è costruito con i più moderni principi della sostenibilità e proprio in questa categoria ha vinto il prestigiosissimo premio come centro commerciale “sostenibile” dell’anno nel 2017, soprattutto grazie al tetto in Glulam, sostenibile e usato per la prima volta in un centro commerciale.

Legno e vetrate dunque, spazi enormi e frammentariamente cartesiani fuori, tondeggianti e aeroportuali dentro; luminosissimo e accogliente in modo da apparir quasi ambiente naturale, e dell’ambiente naturale conserva la caratteristica fondamentale: è evolutivo, pronto a tutto, anche a una pandemia. Indifferente agli eventi, il mastodontico serpentone fichetto finto-scandinavo e commercialissimo, sta lì, col suo parcheggio più grande di quello di Southland e gli omini con i gilet fosforescenti che spiegano ai disorientati bramosi di acquisti che durante il weekend è tutto chiuso.

Lo dicono con una smorfia di dolore empatico e al tempo stesso di grande autorevolezza; padri comprensivi che negano una caramella ai figlioletti che ancora non conoscono le regole.

Pochi figlioletti in verità, forse una decina in tutto. Alcuni si sfamano (d’asporto, s’intende) a un banchetto che vende pizza al taglio, un incongruente tranche-de-vie anni Cinquanta nel tempio della contemporaneità, seppur ammorbata. Passeggiando all’esterno, deserto, tra le gigantesche palette lignee che sorreggono il tetto e punteggiano il periplo, ci si sente come il primo dell’anno a Stoccolma. Mancano solo gli ubriachi dalla notte prima. O forse quello sono io e non me ne sono accorto.

Solenne incazzatura

Sono venuto a vedere il centro commerciale più all’avanguardia d’Italia per digerire una solenne incazzatura, che, come tutte le solenni incazzature, derivano dal non aver capito qualcosa. La cosa che non ho capito è questa: ma perché è tutto aperto tranne musei, cinema e teatri?

La coincidenza del tutto personale è irrilevante – io esco di casa solo per i succitati motivi o per bere-mangiare con gli amici o per andare a giocare a pallone – non è per questo che sono incazzato. Ovvero, anche per questo. Ma non per questo. Sono incazzato perché non capisco su quali basi si fondi l’idea che un centro commerciale sia più sicuro di un cinema con i posti alternati o di un museo che limiti l’accesso.

Inoltre al centro commerciale non c’è alcuna regola, entra chi vuole, viene trattato insomma come una via, dimenticando che è al chiuso e che le vasche le fai più o meno con lo stesso gruppo di persone. Per non parlare dell’interno dei negozi. Ma a questo ci arriviamo, una volta chiuso il capitolo del perché ci sono andato, al centro commerciale.

I negozi sono aperti perché bisogna risollevare l’economia; perché il rito natalizio è pagano da decenni e si basa sull’acquisto, vissuto come una necessità introiettata e non più indotta. È il capitalismo. E va benone. Ma anche i biglietti del cinema si pagano. Mica è gratis. Dunque, anche il cinema contribuisce al consumo. Ma è chiuso.

Forse perché non puoi impacchettarlo e regalarlo, forse perché le esperienze il cui fine è l’esperienza stessa (musei, cinema, teatri, musica) valgono meno di quelle che hanno una ricaduta diretta e immediata nel consumo e nella produzione di oggetti materiali. E infatti già del primo progetto di Gruen rimasero solo queste ultime. Insomma si sapeva già tutto. È tutto già successo, non siamo che un esito scontato.

La tecnica dell’apnea

Al centro commerciale Il centro, dice Google, la permanenza media è di due ore e mezza. Ammazza. Chissà quanta gente incontri in due ore e mezza. Tanta. E infatti, oggi, che è giovedì e in zona arancione i centri commerciali possono stare aperti, è pienissimo. È giovedì ma è domenica. Lo sterminato parcheggio su due piani (o forse più, da sopra se ne vedono due) con i numeri per ricordarti dove diavolo hai messo l’automobile è quasi completo.

Sciami di persone imbustate dai loro acquisti mi vengono incontro; gruppetti di fumatori, accalcati nell’apposito spazio, fumano. Sale un filo d’ansia. Ma appena entri – se come me sei stato molto ligio al lockdown – è come farsi una botta di popper a sedici anni. Il centro commerciale ti sale, all’improvviso, come una droga sintetica. Anzi, di più: persone! Colori! Scale mobili! Tetti sostenibili! Luci dimmerate e cangianti! Carrelli per la spesa a forma d’alce o macchinina rosa! Ogni cosa è illuminata e meravigliosa.

E a me sembra, non posso esserne sicuro – la sensazione in certi campi equivale alla realtà – di avvertire una reazione fisica, per essere più precisi direi un principio di erezione, causata da cosa non saprei, l’unica ipotesi ch’io posso azzardare che si tratti di astinenza da capitalismo e/o consumismo, non sublimata a causa del pregresso e dunque violentemente erotica.

Mi fermo, respiro, ripenso a Victor Gruen e alle casalinghe dei sobborghi americani anni Cinquanta, e la situazione peggiora. Dovrei anche confessare di avere assunto alcune sostanze con principi psicoattivi per rendere l’esperienza sopportabile (in caso di bad vibes) o ancora più intensa (in caso di good vibes).

Diciamo che in un ciclo bipolare velocissimo, da criceto, alterno i due stadi: allucinazione depressiva e eccitazione fisica. Ora a prevalere è la prima, quando penso che con discreta possibilità alcune delle persone che vedo camminare beate e imbalsamate nel loro sorriso potrebbero ammalarsi o addirittura morire. Ci sono due amiche ultrasettantenni, le studio da un po’, non mi pare facciano grande attenzione, vorrei quasi avvicinarmi e consigliare loro di stare un po’ più distanti dagli altri. Non lo faccio.

Mi coglie naturalmente il pensiero che anche io potrei ammalarmi e dunque metto ancora più attenzione nello slalom e nella tecnica dell’apnea, scientificamente non provata ma ottima anche come metodo di rilassamento. Quando qualcuno mi viene troppo vicino smetto di respirare finché non riesco ad allontanarmi. Poi, all’improvviso, la puzza di fritto.

Non capisco da dove viene, ma mi rende temporaneamente felicissimo, come mi rende felice il negozio di sneaker, nel quale entro perché sembrava ci fossero delle Jordan 1 del numero della mia fidanzata alla quale avevo promesso di regalarle mesi fa senza essere mai riuscito a trovarle. Nemmeno stavolta va bene. Apprendo da una commessa che, appurato che sono troppo grandi (disdetta, almeno avrei comprato qualcosa, costavano 79 euro!), è arrivato un rifornimento completo alle 14 ma alle 14.20 erano già finite.

Non so se essere felice del buon gusto degli avventori o preoccuparmi per la coda che ci sarà stata. Per ora mi sale il panico perché mi accorgo di essere in un luogo chiuso di nemmeno 70mq con almeno cinquanta persone dentro. Procediamo va’.

Obbligati a deambulare

Colpisce naturalmente l’assenza di qualsiasi tipo di seduta, siamo diventati il popolo della deambulazione forzata, impossibilitati a sederci; si vedono isolotti di sedie e tavoli bloccate da catene di transenne metalliche insormontabili che ti fanno sentire completamente escluso dal mondo della comodità. Devi solo camminare e, ovviamente, comprare.

Che poi effettivamente il divieto di sedersi a mangiare è totalmente idiota in posti come questo. Ci sono centinaia di negozi strapieni di gente a meno di un metro l’uno dall’altro, quando invece con tutto lo spazio che c’è sarebbe stato facile sistemare i tavoli in modo che siano alla giusta distanza. E farli diventare di gran lunga il posto più sicuro all’interno del centro commerciale. Ma tant’è, ci siamo abituati alle regole incomprensibili, un po’ come nella Ddr.

Già mi vien voglia di scappare, tanto io i regali non li faccio, mi ripeto da anni che non li faccio perché sono incapace di pensare alle persone attraverso i loro desideri materiali. Ma più probabilmente deriva da un trauma infantile non ancora curato in anni di analisi; però è una bella trovata quella scusa, sono fiero di me, penso mentre vedo la coda fuori da una gioielleria – è la coda più lunga, chissà se è sempre stato così o l’incertezza della pandemia ci ha riportati a pensare che un diamante (finto) è per (quasi) sempre.

Insomma non sono una moralista, tant’è che quando vedo una Ferrari vera parcheggiata in mezzo a una piazza del centro e apprendo che si può noleggiare per guidarla nella pista che c’è a un paio di chilometri da qui (sì, c’è una vera pista automobilistica, piccina, ma vera, di fronte al centro) mi arrapo subito e ripenso a quando sbarcai per la prima volta all’aeroporto di Dubai e vidi una grande coda di uomini in bianchissimi dishdasha in attesa di comprare il biglietto della lotteria istantanea: per 10mila dollari potevi concorrere al premio unico: una Ferrari appunto. Quella sì che è roba seria. No, non posso fare questi pensieri, lo devo a Victor e alla sua utopia.

Ddr

Il centro sembra molto più grande quando c’è gente. Da deserto sembrava non più grande di una decina di gate aeroportuali a tarda notte, ora le sue dimensioni mi colpiscono. È una città. E prima era una fabbrica, dove costruivano l’Alfa Sud. Amen to that.

Mentre mi intrattengo in questi pensieri vengo preso da un attacco di tosse, che oltre a farmi guardare con improvviso sospetto dai miei vicini di vasca mi convince che nel mio caso il periodo di incubazione del Covid sia sceso da 10-14 giorni a 10-14 minuti.

Inizio a pensare che devo andare via, ma il mio occhio cade sulle due amiche over settanta che hanno chissà come trovato due sedie poltrone. Mi rendo conto che di fronte ai negozi ce ne sono; perfettamente distanziate, a tre metri almeno l’una dall’altra. Le due signore sono sedute lì, esauste, e stanno mangiando un pezzo di pizza per riprendere un po’ di vigore o esalare l’ultimo respiro. Ma un giovane con il gilet arancione fosforescente si avvicina e le manda via. Ubbidiscono e si levano con estrema difficoltà.

Ma come si fa? Vado a chiedere all’agente segreto il perché di questo infierire. Mi dice che ci si può sedere ma siccome è vietato sedersi a mangiare, non si può mangiare seduti. Ma è insensato, gli dico io. E lui (Ddr): «Lo so, ma le regole sono queste». Si può mangiare solo camminando.

Non è shopping, è triathlon, penso, e subito dopo decido che è tempo di bersi una birra – camminando, s’intende. Ma sono passate le 18. Una gentile ostessa mi dice che per questo non può vendermi una birra. Le dico ok, la ordino online, chiamo il corriere, gli do la mancia, gli dico che ha avuto fortuna e che può segnare la consegna come effettuata mentre lei mi dà due birrette. Ride. Ride, lei! Non si rende conto della gravità della situazione.

Sono in un centro commerciale, le sostanze sintetiche hanno ormai esaurito il loro effetto e io inizio a stare malissimo. Victor, Victor, mannaggia a te che te li sei inventati sti dannanti centri commerciali, che non ci andavo mai e ci sono venuto solo per la pandemia, perché volevo raccontarvelo; insomma, Victor, perché l’hai fatto? Mi trovo a più di trenta minuti dal frigo di casa mia. Aiuto. Getto la spugna? Getto la spugna.

Ma all’improvviso scorgo una giovane donna che beve un calice di vino all’interno di un’enoteca. Mi precipito. La giovane donna lavora lì e sta solo assaggiando un nuovo arrivo, conferma che non può servirci dei calici ma ci convince a comprare un paio di bottiglie. Le compro, spero nell’effetto placebo, almeno fino a quando, vedendo dei cavatappi in vendita, m’illumino d’immenso. Scusi, ma sono in vendita? Sì. Sì, sìììììììì!

È un attimo che asportati due bicchieri di plastica da un fast-food distratto, siamo nel parcheggio ad aprirci un buon rosso e a brindare al caro vecchio Victor. È fatta anche questa.

Ancora Victor

Victor, appunto. Come finisce la sua storia? Che ne è stato del suo sogno di costruire un centro-città al chiuso, dove poter godersi la vita in braghe corte (siamo sempre in America) e camicetta, riproducendo l’atmosfera di un pomeriggio di Giugno nella “U d’oro” di Vienna, le strade dello shopping, il Graben, Kholmarkt e Kärntner Strasse? Finisce male.

Perché gli americani non volevano solo protezione dal freddo, ma dal mondo; volevano l’enclave sicura, sicurissima; volevano stare lontani dai brutti incontri che si fanno in città. E quindi il successo di Southdale ebbe il segno opposto a quello sognato da Gruen: divenne paradiso dell’automobile. Enclave sociale. Gruen realizzò a cosa aveva dato inizio e se ne tornò a Vienna con le pive nel sacco.

Tornato a Vienna negli anni Settanta, dopo aver realizzato che il suo sogno utopico e socialista, di un luogo per tutti, centro di coesione sociale e avamposto antiautomobilistico era diventato l’esatto opposto. Nel suo ultimo discorso a Londra disse che non voleva, né poteva, sentirsi responsabile per lo “sviluppo bastardo” delle sue idee.

Sul sito del centro commerciale Il centro una frase è evidenziata in neretto: venire da noi è come fare una passeggiata in centro. Le parole esatte di Gruen, che morì nel 1980 e non poté nemmeno vedere nascere l’ultimo dei suoi figli bastardi. Si chiama Amazon.

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