Victoria Beckham si rilancia, ormai il confine tra documentario e marketing è invisibile

«Non è vero che non rido, lo faccio solo dal lato sinistro del viso. O rido internamente». Victoria Beckham è uno spasso: sta guardando in camera mentre spiega che la teoria della faccia sempre imbronciata nelle foto ha una spiegazione. Le luci sono soffuse, sta per uscire di casa col marito David, che intanto le offre un cioccolatino e lei risponde che cioccolato non ne mangia dagli anni Novanta e quindi perché mai dovrebbe cominciare ora. Con buona pace della body positivity e di tutto il cucuzzaro sull’accettazione di sé. La cinepresa è quella di una troupe Netflix: tre episodi, da circa un’ora l’uno, sondano in lungo e in largo la sua vita. Almeno questo sembra in apparenza. Il nuovo documentario su Posh Spice – Victoria Beckham, e come sennò – altro non è che uno spottone pubblicitario al suo marchio di moda che fino a qualche anno fa rischiava il tracollo definitivo e che ora comunque si barcamena con un debito complessivo da circa 93 milioni di sterline. Quisquilie. La normalità di chiamarsi Beckham, i cinquant’anni del campione inglese tra lanci da Gps e sentenze di Maradona La docuserie di Victoria In suo aiuto accorrono lo stilista Tom Ford e Anna Wintour – presumibilmente non a gratis – a spiegare che lei è da 15 anni che cerca affermazione, rispetto. Vuole essere riconosciuta, non solo come moglie dell’ex centrocampista del Manchester United (e adesso proprietario di uno dei più grossi club americani, l’Inter Miami, acquistato dieci anni fa per 25 milioni di dollari e valutato ora un miliardo), ma come stilista e imprenditrice – salvo poi farsi autogol rivelando che spende 70mila sterline l’anno per le piante dell’ufficio: e allora Vic, forse, serve un economo. Breve parentesi dei media inglesi che per anni hanno definito l’azienda «un hobby costosissimo». Poi, con un tempismo perfetto una sequenza di inquadrature pensate per rilanciare la sua immagine. Victoria disegna, coordina shooting, racconta la fatica e la passione per la moda. Narrazione costruita con cura, credibile quanto basta, e soprattutto funzionale a trasformare l’empatia del pubblico in valore economico. Operazione simile di ripulitura morale e affermazione sul mercato l’aveva compiuta il marito David: nel 2023 esce il documentario in 4 episodi su Netflix, Beckham; nel 2021 era stato sommerso di critiche, ma prima di soldi, per aver fatto da ambassador per i mondiali di calcio 2022 in Qatar, uno Stato in cui il rispetto dei diritti delle donne lascia – eufemisticamente – a desiderare. Victoria non è la sola. La tendenza delle grandi produzioni è vendere come documentario un sofisticato strumento di “ristrutturazione dell’immagine” per celebrità in cerca di riscatto, rilancio o riconferma. Il confine tra documentario e marketing si è fatto sottile, a volte invisibile. E non è un caso. Non più strumenti per raccontare la realtà con uno sguardo critico, laterale, a volte scomodo, ma prodotti cuciti addosso ai protagonisti, che spesso ne richiedono la totale supervisione, e finalizzati a costruire una narrazione emotiva, empatica e fortemente controllata. E intanto praticamente nessuno saprà i veri dati di visione sulla piattaforma. I calciatori si reinventano registi: così il pallone diventa fiction Gli altri esempi Nel 2020 Miss Americana veniva venduto come un dietro le quinte nella carriera di Taylor Swift e della sua transizione da popstar a figura politica: la strategia di posizionamento era chiara. Da ragazza di provincia dell’industria musicale a donna consapevole, progressista, globale. Un’opera ben fatta, ma “autorizzata”, con la cantante anche in veste di sceneggiatrice. Sempre nel 2020 girano The Last Dance, sul mito di Michael Jordan. Formalmente un documentario sportivo, nei fatti un’epopea in dieci episodi costruita per rafforzare il mito di Jordan come Goat – Greatest of all time – assoluto, con poco spazio per le voci critiche o le contraddizioni. Tutto supervisionato da Jordan stesso, che ha dato il via libera all’uscita solo dopo aver visto il girato nella sua versione definitiva. Coincidenza: il rilancio delle vendite del marchio Jordan (Nike) dopo il documentario è stato stimato in centinaia di milioni di dollari. Meglio di una campagna pubblicitaria. E a differenza di uno spot da 30 secondi, un documentario può durare ore, entrare nel subconscio del pubblico, costruire intimità e fiducia. Si rivolge a un’audience che ha già scelto di investire tempo per ascoltare la storia di una figura famosa. È soft power puro, persuasione. Con Harry&Meghan (Netflix), il duca e la duchessa del Sussex hanno guadagnato circa 100 milioni di dollari nell’ambito dell’accordo pluriennale con la piattaforma. Ma più dei soldi, quello che hanno cercato – e in parte ottenuto – è stato il controllo del racconto, dopo anni di gossip, fughe dai tabloid, polemiche con Buckingham Palace. Beyoncé (Homecoming), Billie Eilish (The World’s a Little Blurry), Jennifer Lopez (Halftime), Pamela Anderson (A Love Story). Tutti casi in cui il documentario non è solo testimonianza, ma strumento di posizionamento pubblico. In alcuni casi serve a umanizzare (Eilish), in altri a rimettere in discussione il personaggio per troppi anni incasellato in uno stereotipo (Pamela), in altri ancora a riattivare una fanbase assopita (J.Lo). Victoria Beckam non va a Portofino perché non c’è la palestra Bulimia di autenticità selettiva L’epoca dei social patinati può definirsi parzialmente terminata: la vita perfetta è stata smascherata, quindi ora il pubblico cerca la crepa, l’imperfezione, il retroscena emotivo. Non la verità in purezza, bensì una verità credibile. Quella che mostra il dolore, ma lo incanala in concetti che hanno ormai un che di frusto, come l’abusato empowerment femminile. Che racconta i fallimenti, ma solo per arrivare al riscatto. I documentari contemporanei sfamano una specie di bulimia di autenticità selettiva. Il famoso “non sono perfetta, ma sono vera” è diventato un format, un genere, una strategia. Le lacrime sono vere, certo. Ma ogni lacrima è montata, dosata, tagliata, con un marchio, un cognome, una carriera che ne escono rafforzati. A questo punto vale la pena chiedersi se il documentario abbia perso la sua natura intrinseca, quella di indagare l’oggetto protagonista, e si sia invece trasformato in una lunga pubblicità travestita da confessione. Victoria Beckham lo sa bene: per rilanciare un marchio in perdita, servono più dei numeri. Serve una storia. E possibilmente una serie su qualche piattaforma che la racconti nel modo giusto. La docuserie è il luogo in cui ego, immagine pubblica e interessi economici si siedono al tavolo delle trattative e firmano un contratto per la riabilitazione o la celebrazione del fortunato di turno.