Nel 1984, Luigi Ghirri scriveva che Vincenzo Castella – allora trentaduenne – era una delle figure più importanti della “nuova fotografia italiana”. Una generazione, spiegava l’artista di Scandiano, il cui approccio alla fotografia era neutro e impersonale. La “morte dell’autore” era l’elemento unificante della nuova tendenza, che seguiva la lezione di Walker Evans: silenzio, rigore e semplicità.

Sono passati quasi quarant’anni e Castella ha smesso i panni della giovane promessa per indossare quelli del maestro. Il suo lavoro si è evoluto, senza però tradire le convinzioni che avevano fondato la poetica degli inizi. «Ogni nuova fotografia andrebbe guardata come un fatto nuovo», dice Castella. «Non come variante, né riproduzione e neanche come una realtà o il suo opposto. L’azione fotografica non è né conveniente né funzionale: ma è un gesto sottile, elusivo e infallibile».

La macchina urbana

A cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, l’obiettivo di Castella si posa su paesaggi urbani, interni di case o negozi, zone industriali e squarci di rovine archeologiche. Le immagini a colori sono realizzate con lastre di grande formato, in grado di registrare con esattezza i minimi particolari. «Tutto sembra guidato da una sapiente regia, che con discrezione indica, sottolinea, rende obbligato il percorso del nostro sguardo», scrive Ghirri guardando queste immagini di Castella: «Non per forzare la visione ma per meglio rendere visibili le scenografie del teatro del mondo».

Castella, nei decenni successivi, si concentra sul tessuto cittadino ripreso dall’alto. Milano, Napoli, Torino, Atene, Amsterdam, Colonia. «Ciò che ho tentato di fare è raccontare l’intensità continua della macchina urbana, che sviluppa una vita che va al di là del pensiero di chi l’ha disegnata», spiega. «La mia idea di città è quella di un’astronave costruita altrove e calata nella nostra realtà. Così mi sono concentrato sui ganci, le cerniere, i collegamenti dove si vede meglio che la città, soprattutto quella italiana, si sviluppa più sul vissuto che sul progetto urbanistico». Sono immagini dentro cui lo sguardo si può perdere nei tanti dettagli, tutti rigorosamente a fuoco. Uno sforzo di precisione che è un gesto di affetto verso la trama di vie e palazzi dentro cui si agita la vita degli uomini.

Trasformazione digitale

Gli anni a cavallo del 2000 sono quelli, invece, delle sperimentazioni tecniche, che lo portano, tra i primi in Italia, a scannerizzare le lastre fotografiche, stampandole da file. C’è in lui il desiderio di riflettere sulla natura della trasformazione digitale, che non considera un processo neutro, e la curiosità di ottenere rese cromatiche lontane dal naturalismo, ma vicine piuttosto ai prodotti industriali: «Un certo verde era quello, più che di un prato, di uno schermo della Apple».

Nell’ultimo periodo, l’interesse di Castella si è spostato sulla storia dell’arte. Santa Maria Novella a Firenze. San Maurizio e Santa Maria delle Grazie a Milano. Il tentativo è quello di restituire, tramite inquadrature periferiche, una lettura poetica degli spazi architettonici o degli affreschi. Come accade per il Cenacolo vinciano, per il quale si sofferma sulla porta murata che interrompe e ferisce l’opera. Il rettangolo di cemento, che il fotografo fa quasi scomparire nel buio nella parte inferiore, appare come una metafora sia del capolavoro impenetrabile di Leonardo, sia del diaframma che ci separa dalla conoscenza definitiva del mondo.

Il verde

Parallelamente a questa ricerca, l’artista ne ha portata avanti una che riguarda la natura. Sono fotografie ravvicinate, realizzate con obiettivi ottocenteschi, in cui la messa a fuoco non è uniforme. L’effetto è pittorico, ormai lontano dalla precisione chirurgica di Evans. Spesso sono fotografie scattate in giardini botanici, anche se danno l’impressione che siano state realizzate in ambienti selvaggi.

«In questo caso cerco di aumentare la temperatura dell’azione visiva. La natura mi permette di creare dei fondali disomogenei di piante in cattività. Non ho quasi mai fotografato un bosco», spiega Castella: «Non fotografo il creato o il creatore, ma qualcosa che considero un testo, spesso trattato nella storia dell’arte nelle periferie dei quadri, ai margini. Sono attratto dal colore verde, un colore non bello, ambiguo, ma che ti dà la sensazione di capire qualcosa di più. Non penso sia un caso che, nella cultura popolare, rappresenti la speranza».

L’opera e le sue ferite

Nel recente Il libro di Padova, pubblicato da Silvana Editoriale, Castella unisce questi due filoni tematici – l’arte del passato e la natura – proponendo un viaggio che parte dall’orto botanico, attraversa i principali edifici storici della città veneta, per poi fare ritorno al punto di partenza. La palma di Goethe, la cattedra di Galileo, il giudizio universale della cappella degli Scrovegni.

«È un manuale di percorso, dove si fa la somma di ciò che si sa e di quello che non si sa e alla fine si ottiene una misteriosa derivata matematica per la quale, in qualche modo, è possibile conoscere qualcosa”. Fino ad allora l’artista aveva concepito il proprio lavoro in termini di “paratassi”, cioè l’accostamento di frasi-immagini principali, indipendenti e interscambiabili. A Padova, invece, ha cercato di costruire un testo ‘ipotattico’, in cui il discorso si articola con frasi principali e subordinate, in modo da rendere meglio la dinamica conoscitiva.

Uno dei momenti più intensi del libro è la pagina con le quattro foto del Martirio e trasporto di San Cristoforo, l’affresco di Andrea Mantegna nella cappella Orvetani della chiesa degli Eremitani. Le immagini verticali, a formato panoramico, sezionano l’opera con tre pause, un po’ a imitare il movimento dello sguardo che segue, da sinistra a destra, la narrazione pittorica. Una scelta che permette da una parte di includere la dimensione del tempo dell’osservazione, dall’altra di entrare in rapporto con l’opera andando oltre la banale mimesi fotografica. L’artista include non solo il dipinto, ma anche la porzione di parete sottostante e un brandello di pavimento. «Non possiamo comprendere l’enorme patrimonio che abbiamo in Italia se non estendiamo il campo visivo al luogo in cui le opere sono conservate. A me non interessa la denuncia del degrado – e non è il caso di Padova –, per me il punto è l’osservazione allargata».  Dalle immagini di Castella della cappella Orvetani riaffiorano anche le perdite dovute al bombardamento del marzo del 1944: l’opera e le sue ferite, quelle del tempo e quelle inflitte dalla mano dell’uomo.

Nuova fotografia italiana

Per Castella la realtà non è quella che vediamo. È migliore. «Perché il visibile è fatto di ciò che viene inquadrato dall’obiettivo e riesce a impressionare la pellicola, ma anche da ciò che è invisibile agli occhi e alla macchina fotografica. Non parlo di fantasmi, ma di ciò che, pur non vedendosi, possiamo conoscere soltanto attraverso ciò che ci appare». È per questo che l’artista cerca sempre di lavorare sullo “spazio negativo”, sia dal punto di vista della scelta dei soggetti, sia sul piano delle inquadrature. Da una parte, brani di città o di opere non usurati dallo sguardo dei mass media, dall’altra l’allargamento delle riprese al contorno dei soggetti, spesso ottenuto anche dall’uso del formato panoramico.

Un’altra scelta che ricorre nell’opera di Castella è quella di riprendere il controcampo. Come succede per il cavallo ligneo nella grande sala del palazzo della Ragione di Padova, che viene ripreso da dietro, mostrandone in piano soltanto il piedistallo e le zampe. Ai margini dell’inquadratura c’è, invece, lo spazio dal quale, di solito, il monumento viene osservato dal visitatore. «È l’opera che inizia a guardarti», spiega. Lo stesso aveva fatto anche a Firenze, quando riprese Santa Maria Novella dall’abside verso la facciata, mostrando in primo piano il retro di ferro e legno del crocifisso di Giotto che risalta sullo sfondo di volte di pietra bianca e nera.

L’attenzione priva di retorica verso un paesaggio sconosciuto all’immaginario collettivo, che condivideva con la “nuova fotografia italiana”, oggi appare trasfigurata. Resta in lui una buona dose di anticonformismo, per il quale l’immagine è strumento e fine per guadagnare una consapevolezza liberata. È cambiata la società, che ha trovato nuovi modi per imprigionare le immagini. È cambiato lui stesso, che non si è accontentato di un solo modo di desiderare la liberazione dello sguardo.

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