Il prossimo 13 marzo Mikaela Shiffrin compirà 30 anni e, davanti a sé, avrà ancora tante stagioni per fare girare la testa agli appassionati di statistiche. La fuoriclasse statunitense dello sci alpino, dopo due ori olimpici e otto titoli mondiali poche settimane fa, al Sestriere, ha raggiunto le 100 vittorie in gare di Coppa del Mondo e guida con distacco la speciale classifica dei plurivittoriosi (davanti a Ingemar Stenmark che finì la carriera con 86).

Nel 2023, dopo il suo 83esimo successo, nel corso di in un’intervista per l’emittente austriaca ORF, la giornalista Alina Zellhofer le chiese quando immaginava sarebbe avvenuto il sorpasso dello svedese e Shiffrin rispose: «Prima devo riposarmi (…). In questo momento sono in una fase spiacevole del ciclo mensile, quindi mi sento particolarmente stanca». Alina commentò prontamente con un «Ho capito benissimo».

Chi invece non aveva capito niente, poverino, era Peter Brunner, interprete al servizio dell’Austrian Broadcasting Corporation che tradusse la «fase spiacevole del ciclo» trasformandola in un disagio dell’atleta causato dal non aver potuto fare un giro in bici, attività che secondo lui era solita praticare ogni mese. Non si hanno notizie di come sia proseguita la carriera professionale del signor Peter ma quell’intervista, divenuta virale sui social, ha dato la misura di quanto il ciclo mestruale fosse ancora tabù.

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Giri di parole

La stessa Shiffrin si prese la responsabilità dell’accaduto: «Dovremmo poter parlare normalmente di queste cose» dichiarò. Invece così non è e si fa ancora ricorso a una lunga serie di eufemismi: «Diventi signorina» quando hai il menarca poi hai il «periodo», «le regole», «le tue cose», sei in «quei giorni» o «sei indisposta». Si calcola che, nel mondo, ci siano più di 5mila modi diversi per fare riferimento alle mestruazioni senza nominarle. Se è vero come insegna Cristina Fallaras, giornalista, attivista per i diritti delle donne che «tutte le rivoluzioni partono da una rivoluzione comunicativa» la strada per liberarci delle gabbie di controllo e definizione della femminilità, costruite in secoli di patriarcato, è ancora molto lunga.

La prima atleta italiana (è proprio il caso di dire) a fare saltare in aria il tema dell’emancipazione fisiologica della donna atleta, fu Sara Simeoni. Il 4 agosto del 1978, quando volò sopra l’asticella posta a 2 metri e 1 centimetro stabilendo il record del mondo di salto in alto, diede vita a un momento di indimenticabile bellezza sportiva dall’effetto deflagrante sull’immaginario collettivo. Fu un evento sportivo dal potere sovversivo: una prestazione che infrangeva i limiti ritenuti insormontabili per una donna, dava inizio a un’era nuova in cui lo sport femminile usciva dal confinamento di pura cornice coreografica per diventare tecnicamente e atleticamente degno di rispetto.

Lo studio è una risorsa

Un risultato la cui lettura rovesciava l’ordine prestabilito anche per un’inattesa dichiarazione: «Ho fatto il record col ciclo» disse. E segnò così anche il primato di essere la prima a insinuare pubblicamente il dubbio che, forse, il disagio mensile (che aveva contribuito a relegare la donna al ruolo di angelo del focolare) poteva non essere una disgrazia; e chissà magari, studiando la materia, si sarebbe perfino scoperto che la seccatura poteva essere una risorsa. Il fatto suggeriva che era tempo di abbandonare pregiudizi e pseudo-conoscenze: era giunto il momento di investire nelle scienze per aprire un filone di ricerca dedicato alla donna e smetterla di mutuare la medicina sportiva e la metodologia dell’allenamento dalle esperienze maschili.

Tuttavia il balzo rivoluzionario di Sara Simeoni del 1978 e il ciclo/bicicletta di Mikaela Shiffrin del 2023, marcano mezzo secolo in cui l’incredibile progresso prestativo compiuto delle atlete non ha fatto da volano a uno sviluppo altrettanto positivo nell’analisi del corpo femminile (i casi Semenya e Khelif ne sono purtroppo le ultime drammatiche evidenze): un’evoluzione compromessa e zavorrata dal gender gap che, l’innominabile materia del ciclo mestruale manifesta anche da un punto di vista verbale e comunicativo.

Il ruolo degli estrogeni

E allora iniziamo a chiamare «le mie cose» con il loro nome. Esprimersi con «avere il ciclo» di per sé non significa niente, perché per «ciclo mestruale» si intende tutto il periodo dei circa 28 giorni suddivisi in 4 fasi. Il sanguinamento, avviene dal primo al quinto giorno ed è la fase chiamata mestruale (o mestruazioni) in cui i livelli di estrogeni e progesterone sono al minimo. Dal sesto al quattordicesimo giorno segue la «fase follicolare» in cui gli estrogeni aumentano. L’ovulazione, la terza fase, tende a occupare i tre giorni centrali del ciclo (dal 14esimo al 16esimo) in cui estrogeni e testosterone (si proprio lui, il famigerato testosterone) raggiungono il picco. Il quarto segmento è il luteale o luteico (dal 17esimo al 28esimo giorno) in cui aumenta il progesterone per poi calare fino alla fase mestruale che chiude il ciclo e conduce all’inizio del nuovo. Sono ipotalamo e ipofisi, con il rilascio delle gonadotropine, a dirigere il traffico ormonale che a seconda dei momenti e del prevalere di uno o l’altro ormone comporta diversi effetti e sintomi; un quadro complesso amplificato dalla sua declinazione nelle infinite differenze individuali che ogni donna porta in sé.

La metodologia dell’allenamento così come la nutrizione, il ciclo sonno-veglia, sono i pilastri su cui si basa la cura dei dettagli fondamentali ai fini della prestazione e richiedono di conoscere gli effetti che ogni fase del ciclo mestruale determina sulle necessità dell’atleta. Un esempio: mediamente nella fase follicolare l’aumento degli estrogeni favorisce allenamenti ad alta intensità e carichi elevati di forza che vanno sostenuti con diversa alimentazione e recupero. Ad oggi solo poche atlete di altissimo livello hanno lavorato in questo modo, monitorando le esperienze, sperimentando programmazioni individualizzate e trasformando la conoscenza del proprio corpo in un viaggio di crescita personale prima che di costruzione della performance. Si stima che solo il 9 per cento degli studi di scienza dello sport pubblicati negli ultimi cinque anni, riguardi le donne. Tuttavia ci sono realtà virtuose soprattutto attorno ai grandi team degli sport di squadra, che hanno reso la materia obbligatoria per la formazione dei tecnici.

L’abuso della pillola

E in generale, anche se lentamente, le atlete stanno facendo rete per condividere le conoscenze, consapevoli che il ciclo, se lo conosci, è una risorsa. Purtroppo è ancora diffusa la pessima tendenza a superare la complessità del ciclo mestruale attraverso l’abuso del contraccettivo orale che semplifica ma lo fa a discapito del naturale equilibrio endocrino. Certo è un percorso da costruire insieme a uno staff medico/tecnico consapevole, preparato, moderno, capace, possibilmente non solo al maschile (come purtroppo accade nello sport soprattutto italiano). Un approccio integrato e multidisciplinare che superi la tendenza a liquidare il tema con un’imbarazzata e vaga domanda mensile. Le atlete devono pretendere un cambiamento, reclamare attenzione e chiarezza a partire dalle parole: perché parlare di mestruazioni è già rivoluzione.

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