«C’è un’attività che sconsiglio fermamente ai neopadri scomodamente appollaiati su una sedia di vinilpelle del reparto maternità accanto al figlio appena nato e alla neomamma addormentati: leggere il giornale»: incontravo queste righe di Essere una macchina di Mark O’Connell all’epoca della sua uscita italiana, più o meno due anni fa, mentre ero esattamente seduto su una sedia di vinilpelle di un reparto di maternità in attesa che nascesse mia figlia.

Oggi leggo il suo nuovo libro, Appunti di un’Apocalisse, appena pubblicato da il Saggiatore nella traduzione di Alessandra Castellazzi, che si apre così: «Era la fine del mondo e me ne stavo seduto sul divano a guardare cartoni animati con mio figlio. Reggevo il cellulare sopra la sua testa e scrollavo Twitter», e per un attimo ho paura che ci sia una telecamera nascosta nel mio salotto che mi spia.

In un accesso di mitomania potrei dire che c’è un legame tra i libri di O’Connell e gli eventi cataclismatici della mia vita. Pensiero magico a parte, la realtà è che pochi scrittori come O’Connell oggi sanno parlare alla nostra vita mentre raccontano di cose che trascendono la quotidianità (be’, almeno la mia) di diversi ordini di grandezza: là il transumanesimo (il movimento di chi vuole superare i limiti della vita organica attraverso la tecnologia), qui addirittura l’apocalisse.

Apocalissi e angoscia per il futuro

In Appunti da un’Apocalisse O’Connell mette insieme due cose. Da una parte una serie di reportage sulle apocalissi contemporanee e le persone che ci fanno i conti: dai prepper americani, gruppi più o meno organizzati di esaltati – spesso di estrema destra – che si preparano all’imminente collasso della civiltà facendo incetta di provviste e munizioni, a una società del South Dakota che affitta bunker extralusso per sopravvivere all’Armageddon; da Peter Thiel, il miliardario della Silicon Valley fondatore di PayPal e consigliere di Trump, che ha comprato intere regioni della Nuova Zelanda per farne il proprio eden post-apocalittico privato, alla colonizzazione di Marte, sogno di un pianeta di scorta plasmato da altri miliardari tech come Jeff Bezos o Elon Musk; passando per una gita organizzata nella Zona, l’area abbandonata intorno a Černobyl’, e un rifugio di meditazione nella brughiera scozzese per hipster ossessionati dalla fine del mondo.

Dall’altra, però, Appunti da un’Apocalisse è anche un libro intimo, un’indagine interiore, un sismografo emotivo delle ansie del suo autore: il diario di un periodo in cui la sua personale angoscia per il futuro, la paura per la morte, aveva assunto il peso plumbeo di una vera e propria depressione. Ci mostra il mondo fuori, ma la domanda che si rivolge è la stessa che ci facciamo ogni giorno, consapevoli o meno: come convivere con la paura?

L’essere uscito, in Inghilterra e negli Stati Uniti, all’inizio di una pandemia globale non ha reso il libro superato. Al contrario, risuonano con maggior chiarezza elementi che oggi, dopo un anno di quarantene e zone rosse, ci appaiono preveggenti.

Noia e tragedia

Ad esempio, l’imprevisto legame tra noia e tragedia: terrorizzati dal contagio, emotivamente devastati dalle morti, scossi dalla crisi e allo stesso tempo annoiati dal lockdown, stufi dell’isolamento, logorati dal rallentamento dei rapporti. Siamo assediati dalle notizie terribili che ci arrivano dalle timeline dei nostri social – e infatti il 2020 è stato l’anno del doomscrolling, la lettura compulsiva di news apocalittiche – mescolate al gossip sulla famiglia reale, piatti terribili di amatriciana, polemiche politiche, indignazioni quotidiane dimenticate il giorno dopo.

Se da una parte questa mescolanza è tipica della modernità secolarizzata, del resto già Baudelaire parlava di «isole d’orrore in un mare di noia» per descrivere la sua epoca, è vero che l’avvento dei social e la loro pervasività ci ha trasformato in tossici dell’orrore: come drogati che riconoscono quanto sia dannosa la sostanza che pure agognano, il pollice scorre sullo schermo in attesa della prossima notizia che ci farà stare male.

Questa “cura Ludovico” conduce a qualcosa di ancora più profondo dell’anestetizzazione: una vera e propria rimozione del tragico. Smettiamo di vederlo, di lasciarci toccare dal male e quindi cambiare, reagire. Come spiegare altrimenti l’indifferenza con cui quotidianamente accogliamo le centinaia di morti da Covid? È come se ogni giorno, tutti i giorni, precipitasse un Boeing 747 e la notizia fosse accolta con un’alzata di spalle, magari oscurata dal retroscena di una manovra politica.

Una fine lenta

C’è un problema di immaginazione, quindi, di linguaggio, di capacità di raccontare la fine del mondo. «L’apocalisse era un fatto inaspettato, uno squarcio nel cielo», ha scritto Hans Magnus Enzensberger, «un evento inconcepibile che solo gli indovini e i profeti potevano prevedere. Invece oggi la sventura che immaginiamo per noi stessi si avvicina lentamente, insidiosa e tortuosa, l’apocalisse al rallentatore».

Ecco il punto: apocalisse era un bang!, un lampo di luce e di fuoco, un istante che tutto avrebbe rivelato. Nessuna cultura ha immaginato una fine del mondo al rallentatore, a rate, lenta e graduale come quella che stiamo vivendo tra riscaldamento globale, pandemie, e disordine mondiale: non abbiamo mitologie a guidarci, tavolette per decifrare la realtà, storie inconsce che diano un ordine al gran casino del mondo che finisce.

Con i cavalieri dell’apocalisse ovunque, per tutto il tempo, cosa mi è saltato in mente di fare un figlio? Se lo chiede anche O’Connell (che ne ha fatti addirittura due). Ci pensavo anche mentre guardavo Tenet, l’ultimo film di Christopher Nolan, una storia di paradossi temporali al cui cuore c’è fondamentalmente questo: il futuro ci odia così tanto per quello che gli abbiamo lasciato (un mondo apocalittico) che torna indietro per ucciderci.

Nessuno ti odia di più del futuro: c’è un’idea altrettanto paranoica? Eppure nel suo rivelare un senso di colpa, è anche la grande cifra culturale dei nostri anni. Secondo alcuni è criminale costringere un’altra persona a vivere nelle conseguenze delle nostre scelte. Secondo altri rinunciare ad avere un figlio porta a un risparmio di 60 tonnellate di emissioni Co2 all’anno: trenta volte più che rinunciare del tutto all’auto, sessanta volte rispetto al diventare vegani! Eppure. Eppure confesso che queste considerazioni non mi hanno sfiorato nemmeno per un secondo prima che nascesse mia figlia (né sono diventato vegano per espiare).

L’unica domanda che mi sono fatto prima della nascita di Alba è stata, più prosaicamente, se avessi potuto garantirle una vita dignitosa a livello economico. E così veniamo al vero grande protagonista del libro di O’Connell…

«È più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo» è una frase molto citata anche se non è facile stabilirne il vero autore: c’è chi dice di Mark Fisher, altri Slavoj Žižek, alcuni la fanno risalire al critico Frederic Jameson. Il fatto è che è molto citato perché, lo vediamo, è molto vera: tutti i “fanatici dell’apocalisse” incontrati da O’Connell sono ricchi, il più delle volte straordinariamente ricchi, ricchi al punto di sognare di abbandonare questo pianeta al suo destino dopo che lo stesso sistema che li ha resi ricchi l’ha condannato, il pianeta, al collasso. Lasciando tutti gli altri a bollire nel riscaldamento climatico o morire di qualche altra morte.

In uno dei suoi viaggi, O’Connell incontra una società che affitta bunker di lusso: per pubblicizzarli, la ditta mostra dei filmati del caos prossimo venturo in cui «la popolazione percepita come selvaggia era marcatamente non bianca, enfaticamente urbana». E soprattutto erano filmati Baltimora nel 2015 e Londra nel 2011, dove rabbia e dolore dilagavano per la morte di un giovane nero sotto la custodia della polizia. «Le persone prese a modello di un mondo senza legge, quindi, erano proprio le persone che capivano in modo più intimo e urgente cosa significasse vivere senza la protezione dello stato, sapere che la legge non li avrebbe protetti».

Ecco la scoperta più amara e preziosa che fa O’Connell: quella che io chiamo fine del mondo, è già la vita quotidiana della maggioranza della popolazione fatta di donne, minoranze etniche, poveri e classi subalterne, ogni giorno esposti all’incertezza, alla paura, all’angoscia per la propria sopravvivenza, senza protezione dalla violenza e dall’arbitrio di altri. Parlare di apocalisse è un privilegio che nasconde questo sistema di sfruttamento.


MarkO’Connell è autore del libro Appunti da un’Apocalisse – Viaggio alla fine del mondo e ritorno, edito da il Saggiatore con traduzione a cura di Alessandra Castellazzi

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