Una sera di queste guardavo su Mubi Mariner of the Mountains, l’ultimo docufilm di un grande regista, il brasiliano d’origine algerina Karim Aïnouz, già autore di almeno un altro grande film, La vita invisibile di Eurídice Gusmão, premiato a Cannes 2019. E pensavo che, ultimamente, mi piacciono solo le cose che la gente fa – dirige, scrive, progetta, confeziona – per parlare di sé.

Marinheiro das montanhas, così in originale, racconta il primo viaggio di Aïnouz, ultracinquantenne, in Algeria, terra natale di suo padre, che conobbe la madre del regista, brasiliana, quand’erano giovani immigrati di belle speranze negli Stati Uniti degli anni Sessanta. Poi, ad amore sbocciato e figlio appena nato, quel padre se ne tornò in Nordafrica e l’album di famiglia, di quella famiglia, cambiò per sempre.

È autofiction, come si direbbe oggi, ma è anche una storia di persone e (non) luoghi uguale a tante altre, a tutte le altre, dunque ad altissima immedesimazione. Ha il passo del resoconto di viaggio e pure del diario intimo, due generi che stanno meglio sulla carta che mediati per immagini. L’ottimo esito sullo schermo dimostra che Aïnouz è, appunto, un autore grande, raffinatissimo.

Negli stessi giorni leggevo Zero Gravity, la nuova raccolta di racconti a firma Woody Allen (è appena uscita da noi per La Nave di Teseo), che non c’entra ma c’entra. E pensavo: è autofiction pure questa, anche se abilmente travestita per mano (per penna) di uno scrittore ancora più grande, ancora più raffinato. Sono racconti di finzione, certo, per la più parte già usciti sul New Yorker nel corso degli anni passati. E sono l’ennesima autobiografia spassosa, mascherata, arguta, piena di cose che stanno dentro la vita dell’autore, e che sono poi quelle che hanno reso sempre vivo (pardon) il suo cinema: perché Woody, in decenni di film, ha raccontato sempre e solo di sé.

Fino all’ultimo, sottovalutatissimo Rifkin’s Festival, uscito nel 2020, quasi un’opera-testamento in cui Allen s’è divertito a rifare tutto il suo cinema, “suo” inteso stavolta per le passioni di spettatore, da Bergman a Welles, da Godard a Fellini a Buñuel.

Vita e cinema o viceversa

AP Photo/Andrew Medichini

Pure in Zero Gravity c’è tantissima vita e c’è tantissimo cinema, o viceversa: non è mai stato possibile stabilire quale sia l’uovo e quale la gallina, nell’impasto biografico/immaginifico della scrittura di Allen, che fosse destinata ai giornali o ai copioni.

C’è il suo cinema, stavolta da intendersi come contraltare narrativo a una filmografia dove s’incrociano molto spesso gli stessi temi: un produttore cialtrone che pare quello al centro del sommo Broadway Danny Rose; la prestidigitazione e la magia che sempre ritornano (La maledizione dello scorpione di giada, Scoop, Magic in the Moonlight); le aragoste, protagoniste di uno splendido e surrealissimo racconto, che non possono non far tornare in mente la scena di Io e Annie; l’amore commentato come se fosse una partita di tennis, come se fosse Match Point; i romanzi russi come in Amore e guerra e i tormenti delle mamme ebree in stile Edipo relitto; i nomi favolosi dati a personaggi che sembrano usciti dalle sue sceneggiature; e sceneggiature che vorremmo vedere messe in scena immediatamente (su tutte, il film dal titolo philiprothiano Requiem per un marpione); e, ancora, i meravigliosi casting degli attori pensati per questi progetti che mai si faranno (a Meryl Streep, l’attrice che può fare qualsiasi cosa, si vuole proporre la parte di Yasser Arafat); e ci sono, non ultime, le inevitabili battute su Dio. La migliore: «Nessuno può nascondersi da Dio, ma a volte basta un paio di baffi finti per mandarlo in confusione».

E poi (o prima) c’è la vita, declinata secondo due linee principali. La prima è New York, che ovviamente c’è sempre, come sempre, ma che diventa il vero deus ex machina nel delizioso racconto lungo che chiude la raccolta, Crescere a Manhattan. È la Manhattan dell’ispirazione (per gusto della vita) e dell’esasperazione (per costo della vita), e delle tavole calde di cucina kosher; ma è, soprattutto, quella della canzone omonima (citata nel testo) di Larry Hart, l’isola «fatta apposta per un ragazzo e una ragazza».

In Crescere a Manhattan il ragazzo e la ragazza s’incontrano e sembrano davvero fatti apposta l’uno per l’altra, lui naturalmente è l’ennesimo alter ego di Woody («Lei […] non riusciva a simulare interesse per tutte le cose che lo entusiasmavano: la musica jazz, Ogden Nash, i film svedesi»), lei una ricca viziatissima rampolla dell’Upper East Side con velleità d’attrice, tendenza alla crisi di nervi e splendidi golfini.

C’è, nelle pagine sullo sbocciare della loro relazione, una delle più belle descrizioni dei primi appuntamenti, e dell’amore in generale: «Due sconosciuti stavano sondando le acque per capire se avessero abbastanza in comune da poter condividere, un giorno, un lotto al cimitero». Siamo a metà tra Radio Days, per il ritratto della formazione del protagonista tra cinemini di Brooklyn e ruote panoramiche di Coney Island, e il recente Un giorno di pioggia a New York, per gli appuntamenti a Central Park tra i due amorosi che sembrano ricalcare quelli di Timothée Chalamet (lo studentello intellò) e Selena Gomez (la viziata upper class) sotto l’orologio degli animali di George Delacorte.

Il tempo

Director Woody Allen attends a special screening of "Cassandra's Dream" hosted by the Cinema Society and DKNY Jeans at the Tribeca Grand Screening Room, Tuesday, Dec. 18, 2007 in New York. (AP Photo/Evan Agostini)

La seconda linea su cui si muovono tante delle storie raccolte in Zero Gravity è il tempo corrente, quello che ha – ingiustamente, ignominiosamente – deciso di cancellare uno dei più grandi scrittori, e registi, e intellettuali d’America. Il tempo che Allen ha già affrescato nell’ultima autobiografia A proposito di niente (sempre La Nave di Teseo), soprattutto nelle dolorosissime pagine dedicate all’affaire Mia Farrow, vicenda che non starò qui a riassumere.

Anche in Zero Gravity s’intercetta tra le righe il discorso sul politicamente corretto – espressione brutta e abusata, la uso soltanto per capirci – che sta modellando il mondo. Un mondo dove una popstar sexy (quella, immaginaria, del racconto Spiacenti, non sono ammessi animali domestici è mutuata su Miley Cyrus, da lui diretta nell’altrettanto sottovalutata serie Amazon Crisis in Six Scenes) deve cercare a tutti i costi di essere inclusiva, e quando fa sapere che non vuole fare sesso con gli animali la accusano di essere specista.

Un mondo dove l’industria hollywoodiana ha in cantiere un nuovo adattamento di Guerra e pace «con un cast tutto al femminile», altrimenti si pecca di sessismo. È un mondo (no: un modo d’intendere il mondo) per cui Allen soffre, come appunto scriveva nel suo memoir, ma che anche qui – e pure nei casi in cui la scrittura è venuta prima dell’epurazione – guarda con meraviglia quasi incantata, senza mai perdere il gusto dello sberleffo, della burla anche verso sé stesso. Non c’è livore, non c’è astio, non c’è voglia o bisogno di vendetta, ma solo l’occhio sintonizzato al suo tempo, anche quando il suo tempo gli è ingrato.

Delle tante cose della vita, della sua vita, che Woody Allen mette in Zero Gravity, c’è anche una delle più belle e puntuali definizioni di sé stesso: uno scrittore di belle speranze tramutatosi, nel tempo, in «un misantropo malinconico, ossessionato dal lavoro e cronicamente depresso, e che a suo dire dava troppa importanza al sesso». Visto che ci hanno tolto l’appuntamento fisso con il suo film annuale (maledetti!), dateci almeno un racconto di Woody al mese, ma che dico: uno al giorno.

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