Questa faccenda della gravidanza dura chiaramente un mese di troppo. O almeno così credevo finché nei pochi giorni che mi separano dalla data presunta del parto la mia vita non ha cominciato a risentire di una serie di piccoli fastidi via via sempre più ingombranti, alcuni dei quali si sono trasformati in vere e proprie emergenze prioritarie che richiedono la mia totale attenzione.

Non so se questo sia un modo dell’universo per mettermi alla prova, per vedere se sono davvero pronta e all’altezza di questa decisione di riprodurmi – probabilmente no, ma questo non mi ha mai fermato dal fare tutta una serie di cose per cui ero certa di essere inadeguata – ma pensavo mi avesse già mandato un messaggio forte e chiaro quando le piante nel mio appartamento avevano cominciato a deperire in massa, come per ricordarmi che è meglio che mi prenda cura di un essere vivente alla volta e che tanto un bambino avrebbe esaurito le mie capacità di cura.

Ho avuto uno slancio estremo di efficienza nelle ultime settimane: in questa fase si parla di nesting, o sindrome del nido, e lasciate che vi dica che non è una fantasia. Ho passato giorni di passione selvaggia a riordinare i più oscuri anfratti di casa, a disporre tutine e pannolini dentro a divisori per cassetti disposti secondo la sequenza di Fibonacci, ho fatto più lavatrici in una settimana che nell’ultimo anno e poi ho stirato tutto con gusto. A un certo punto ho ordinato online una rastrelliera per padelle e coperchi, l’ho attesa con trepidazione e lì, mentre guardavo la mia cucina rivelare poco alla volta i segnali di un disturbo ossessivo compulsivo, ho capito che forse dovevo fermarmi e che avevo fatto il possibile. Non mi restava che aspettare.

Il cattivo odore

E invece prima di mio figlio è arrivata una puzza. È comparsa un lunedì mattina qualsiasi nel secondo posto dove è più facile riscontrare le puzze, ovvero la cucina (il primo è il bagno, ça va sans dire). Niente di allarmante, solo un olezzo come di Parmigiano lasciato al sole. Ho buttato via l’umido e non me ne sono più preoccupata.

Il giorno dopo era ancora lì. «Tu la senti?» ho chiesto al mio fidanzato, che come me aveva sottovalutato la cosa. Francesco annuisce con una certa solennità – è raro per lui sentire gli odori, di solito usa me come cane da tartufo – e porta via il sacco della plastica, convinto ci sia rimasto dentro qualche incarto di formaggio radioattivo.

Al terzo giorno iniziamo a preoccuparci. La puzza non se ne va, ma cominciano a scarseggiare le ipotesi sulla sua provenienza. Identifichiamo un’area abbastanza precisa in cui si sente più forte, ma non c’è niente di visibile che possa produrre questo odore pestilenziale. Laviamo il pavimento e le piastrelle del muro, puliamo dentro al frigo, sopra al frigo, dietro al frigo. Passiamo con l’alcool, la candeggina, lo sgrassatore. La puzza rimane, non si affievolisce neanche. «È il cuore rivelatore» dice Francesco sotto i fumi degli agenti chimici, mentre un corvo gli compare sulla spalla. Io mi convinco che forse, dopotutto, dovremo cambiare casa.

Ormai è una malattia, non pensiamo ad altro. Il fatto che stiamo per diventare genitori passa in secondo piano, e poi in terzo quando al quarto giorno di puzza faccio una doccia e ne riemergo con un orecchio completamente tappato e l’altro tappato a metà, parzialmente sorda. La spirale discendente ormai è partita e mi rendo conto di essere nel vortice quando cercando di sturare il tappo con la Cerulisina peggioro la situazione. Ora non capisco davvero più niente se non leggendo il labiale delle persone che mi parlano, un’ottima premessa per andare a partorire in ospedale, dove tutti indossano delle mascherine. Francesco mi urla qualcosa dalla cucina, ma anche se non lo vedo e al posto della sua voce percepisco solo un lontano suono ovattato, so perfettamente cosa mi sta dicendo: «Si sente ancora». E poi forse, molto attutita, giunge una bestemmia.

La paranoia

Negli stessi giorni esce un aggiornamento sulle cause del recente decesso di Gene Hackman e della moglie Betsy Arakawa, la quale sarebbe morta nella loro casa per un virus causato dall’esposizione prolungata alle feci di un certo tipo di roditore. Mescolando questa informazione al ricordo di Brittany Murphy, uccisa in casa propria da una muffa particolarmente cattiva, la nostra paranoia è ormai fuori controllo, al punto che rischiamo di ritrovarci nel paradosso: cercando di sopravvivere alla puzza di formaggio rancido, finiremo intossicati dall’Ace Gentile.

Non potevo mica perdere il senso dell’olfatto? Mi chiedo mentre compenso come un sub nel vano tentativo di stappare le orecchie, sentendomi Riz Ahmed in The Sound of Metal. Poi al quinto giorno mi sembra che la puzza si stia affievolendo (o forse ci siamo assuefatti).

A questo punto la casa è in ordine, le padelle sono allineate, la borsa per l’ospedale è pronta all’ingresso. E quindi può essere che abbia interpretato male il messaggio dell’universo? Non ci stava mettendo alla prova come credevo, ma piuttosto ci stava ricordando che è da stupidi inseguire la perfezione e che a volte, anche nei momenti più belli e importanti, c’è qualcosa che puzza. E poi, se tutto va bene, passa.





 

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