Tutto finisce il 4 agosto 2020, con il necrologio di Sergio Zavoli, che aveva iniziato a vivere da cittadino libero poco più che ventenne, quando nel ’45 aveva visto «riapparire su un muro il primo manifesto funebre, con l’annuncio che Gasparoni Elvira, patentata ostetrica, 61 anni, se n’era andata. Era il segno che si ricominciava a morire uno alla volta. Quell’improvviso riapparire di una morte singola diceva che la vita era rientrata nel proprio dominio. Tutto si ricuciva in una spaesata normalità».

Come negli ultimi giorni che ha vissuto, ma con tutt’altra violenza, tutto intorno «mancava una quantità di storie interrotte, di messaggi perduti, di progetti inconclusi», il peccato capitale per chi ha vissuto lavorando, lavorando il lavoro che preferiva. Di giornalista e radiocronista, volto televisivo e politico, ma soprattutto scrittore.

Si parla poco di Zavoli, e ancora meno del suo profilo di scrittore; va ricordato però che tutto quello che ha letto e recitato, da Notturno a Cnosso a La notte della Repubblica, veniva scritto da una mano ferma.

Nel suo Diario di un cronista, per esempio, Zavoli si allarga raramente nel privato. Quando accade, però, è per concedersi affondi insostituibili.

Ci sono anche delle date: il 23 settembre 1944, Zavoli si aggira nelle sue terre (i dintorni di Rimini) tra i soldati inglesi che usano i ragazzi dei Gruppi di Azione Patriottica «come archeologi o rabdomanti», per capire qualcosa delle rovine su cui stanno camminando. «Era come camminare su luoghi appartenuti a realtà remote, abitati da minotauri; pareva che sotto i passi vibrassero ancora le stanze e risuonassero i labirinti». In un podere poco lontano arde un rogo, circondato da soldati indiani che lo guardano con tenerezza, mentre le fiamme assorbono un loro commilitone. Un pagliaio romagnolo elevato a pira di Varanasi puoi raccontarlo solo se l’hai visto, e se sai come scriverlo.

Qualche mese dopo Zavoli inizia a seguire la sua vocazione, raccontando le notizie del mondo negli altoparlanti scassati, visto che nel suo paese le notizie non arrivavano.

Notturno a Cnosso

Scrivendo di realtà remote, minotauri e labirinti, Zavoli non tirava a caso. Il suo primo successo radiofonico, Notturno a Cnosso, lo realizza quando è già entrato in Rai, nel 1953, a trent’anni. In quei venticinque minuti di radio succedono cose che, a distanza di settant’anni, suonano ancora d’avanguardia. I richiami dei barcaroli greci registrati senza doppiaggio, o tagli di sorta; l’esplorazione notturna del labirinto di Minosse insieme a un bambino del posto, uno spiritello che si chiama Manoli.

Le mura del palazzo di Cnosso sono ricoperte di asce bipenne, come spiega Zavoli a Manoli, senza sapere che trent’anni dopo si troverà a intervistare neofascisti e nazisti che lo usano come simbolo inventandosi forse una tradizione norrena.

Diciotto episodi in prima serata su Rai 1, dal dicembre del 1989 all’aprile del 1990, lunghi tre ore e mai interrotti da stacchi pubblicitari: La notte della Repubblica resta lì, inspiegabile, il monolite.

Non è necessario avere familiarità con script e sbobine, ricerca archivistica e scrittura di soggetti, per capire che quel lavoro resta un’anomalia nella nostra tradizione. Se non fosse esistito, le donne e gli uomini nati come me, insieme alla caduta del Muro, sarebbero ancora più orfani. Per quanto mi riguarda poi, non avrei mai dedicato anni di ricerche alla scrittura di un audio documentario che prova a raccontare un frammento di quell’epoca a chi non l’ha vissuta.

Socialista di Dio

Zavoli era rispettato, ma non per forza amato. Incarnava l’istituzione, questo è ovvio. Era socialista poi, ma capace di definirsi «socialista di Dio».

Quando parla di Dio sembra mescolare volentieri un’altra categoria di solito maiuscola, la Vita. Per esempio: il giorno successivo alla morte di Luigi Tenco, di fronte a milioni di spettatori, sembra quasi rimproverare il cantante. Anzi lo rimprovera senza dubbio, perché come ha detto «un poeta molto più povero, e non sto a dirvi quanto più grande di tutti i parolieri del mondo delle canzonette, la morte si scorta vivendo». Zavoli, nonostante le sue basse frequenze e quel passo lento, era un entusiasta.

Una delle sue interviste più note, forse la migliore, è quella a Mario Moretti, il “capo” delle Brigate Rosse che appena dieci anni prima aveva sparato a Aldo Moro. Al brigatista, Zavoli chiede se sia più facile fare domande o dare risposte, e gli viene risposto: «È più facile conversare». Ignoro quante ore avesse passato Moretti davanti ai lavori di chi gli era seduto di fronte, ma in quattro parole ne ha riassunto il dono. Una capacità precognitiva, un gesto naturale, nel leggere la psicologia degli intervistati e la loro bolla prossemica.

La notte della Repubblica

Di Moretti, Giulio Andreotti, Anna Laura Braghetti, Francesca Mambro e Valerio Fioravanti e tutti gli altri, ne La notte della Repubblica viene mostrata l’identità: sia quella che sanno di mostrare, sia la matrice originale a cui si incolla. È banale, ed è vero, che il fondale nero che avvolge il profilo degli intervistati li innalza nella tragedia. Più o meno ignari dei meccanismi che li animano, gli stragisti, i brigatisti, le spie e i ministri hanno giocato la vita tra due blocchi in un paese occupato militarmente da chi l’aveva liberato, prestato al caos, al pensiero magico, all’illusione di un libero arbitrio.

Ricostruito dalle macerie grazie ai rabdomanti e ai falò e raccontato dalla radio e dalla televisione: da Zavoli. Poi arriviamo noi, che leggiamo e ascoltiamo.

E il giornalista così deve, scrivere e parlare, finché arriveranno altri dopo di lui.

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