Cosa significa morire? Chi lo sa, verrebbe da dire, dato che nessuno può tornare indietro per raccontarcelo. Ma tutta la storia della filosofia, in qualche modo, è una storia della morte. Persino la prima spiegazione dei ragionamenti, la teoria della argomentazione, ovvero i sillogismi sono tutti “mortiferi”: tutti gli uomini sono mortali, Socrate è un uomo, dunque Socrate è mortale.

A intuito, senza neanche troppo esercizio induttivo, diremmo che ogni animale (e vegetale) presto o tardi morirà eppure, di parere contrario, era Martin Heidegger. Nei suoi Concetti fondamentali della metafisica, per esempio, ha sostenuto che gli unici a poter morire sono gli umani e che «animali e piante, al massimo, periscono». Se non si capisce davvero e bene, questa tesi di Heidegger, sembra iper-antropocentrica e connessa a una sua altra tesi «solo gli umani sono possessori di mondo». Forse questa connessione c’è, ma come ho provato a mostrare tante volte nel mio lavoro di ricerca che è una connessione paradossale: gli animali, al contrario nostro, non muoiono davvero mai. Ma cosa significa non morire?

Questo, invece, possiamo farcelo raccontare: perché nessuno tra i vivi è mai morto e dunque può raccontarci – a proprio modo – che cosa sia la vita. Morire non c’entra niente con la morte, morire è un processo: un attendere la fine, uno sperare che non capiti mai, e soprattutto come diceva bene Jacques Derrida è soprattutto qualcosa di connesso alla morte dell’altro. Quando muore un altro a cui eravamo legati, improvvisa, la morte altrui entra nel nostro morire e ci rendiamo conto che presto o tardi capiterà anche a noi. Non che gli animali, o meglio certi animali, non abbiano il senso del lutto: lo hanno gli elefanti, i delfini, i primati, e molti altri.

Questa cosa riguarda noi, non “loro”: niente è eterno: il tempo psicologico corre parallelo alla freccia termodinamica. La morte semplicemente, presto o tardi, arriva. L’unica forma possibile di eternità si ha quando il tempo psicologico non scorre perché non conosce il suo parallelo: non sapere che si morirà. «Vive eternamente chi vive nel presente», diceva Ludwig Wittgenstein (nel suo Tractatus, 6.4311): se uno non è nel passato (attraverso la memoria) o nel futuro (attraverso i progetti) ma esiste solo nel “qui e ora”, è letteralmente eterno: la freccia si schianta.

Un eterno presente?

E qui sta il punto: se Wittgenstein ha ragione, e l’eternità è quindi un eterno presente, allora le stesse ragioni per cui Heidegger priva gli animali della mortalità sono quelle che li rendono eterni: l’animalità – senza memoria a lungo termine, senza distinzione presente/passato/futuro – è eterno. L’eternità esiste solo nell’animalità: gli animali non possono morire mai. L’immortalità appartiene ai bambini molto piccoli, questo mi è chiarissimo quando provo a parlare della morte a mia figlia Morgana di soli quattro anni, e agli animali non troppo complessi dal punto di vista neurocognitivo: l’eternità appartiene ai semplici; la morte al complesso. Il rapporto tra semplice e complesso non è quantitativo ma appunto, con Heidegger, “mondano”: è questione di essere dentro o fuori dal mondo.

La distinzione vita/morte è una dicotomia che condiziona tutta la nostra esistenza: limita tutte le nostre azioni.

«La nostra vita è infinita come il nostro campo visivo è illimitato»: così affermava ancora Wittgenstein nello stesso libro... Ma cosa significa questo? La distinzione tra vita e morte è sia è politica perché, come è noto, è stata amministrata grazie al pensiero biopolitico, ed è metafisica per definizione perché vivi e morti sono letteralmente appartenenti a due mondi distinti. In una delle parti più complesse e meno conosciute del Tractatus, Wittgenstein suggerisce che questa distinzione tra vita e morte non è appropriata, nonostante affermi in 6.4312 che «l’immortalità temporale dell’anima umana, cioè la sua eterna la sopravvivenza dopo la morte, non solo non è in alcun modo garantita, ma soprattutto questo presupposto non farà per noi ciò che abbiamo sempre cercato di farle fare».

Spesso le nette distinzioni propongono una visione che vale solo all’interno di un sistema: infatti, mentre è ovvio che i morti differiscono dai vivi, perché i primi non lo sono e i secondi sì, è tutt’altro che scontato che i vivi possano morire.

L’enigma della vita come altro dalla morte non può essere risolto con i grandi dizionari delle scienze naturali: si tratta di un problema filosofico che non ha coestensione con nessun’altra disciplina.

Ciò che consegue anche da questa piccola analisi di Wittgenstein e Heidegger... l’essere umano ha il potenziale per l’immortalità: se non sei in grado di separare vita e morte, e se la morte non è vissuta, allora non sei in grado di separare vita e morte. sei letteralmente immortale. Da questo punto consegue che la distinzione vivente/mortale è un buco nel presente esteso in cui dovrebbe esistere ogni forma di vita: un tempo che si livella giorno e notte, ma non attraverso l’ansia del flusso lineare delle cose del mondo.

Questo buco, che trasforma in parte ogni ricordo in una forma di nostalgia e trasforma il futuro in una meta da raggiungere per tappe, è il passaggio essenziale dell’organizzazione del vivere: il flusso degli eventi deve essere amministrato. Come accennato, l’immortalità punta a mettere al centro i bambini e gli animali, ed è già presente dentro di loro: quale dovrebbe essere a questo punto la proposta costruttiva?

Dimenticare di vivere... solo così non morirete mai.

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