Secondo Alessandro Penati la Rai, pur afflitta dai problemi che l’amministratore delegato Carlo Fuortes ha esposto al parlamento, non può dirsi in agonia perché indebitarsi le costa poco in interessi grazie alla garanzia dello stato. Così dagli anni Ottanta non muore ma non prospera, galleggia come un barcone avvinto al lungofiume. 

Partito Rai

Il “partito” Rai s’acconcia e cerca convenienze entro questo presente eterno e privo d’orizzonte mentre collude di fatto con lo stato maggiore di Mediaset nel sistema del duopolio.

Il prezzo che il paese paga è di avere un broadcasting legato a due aziende dal respiro corto: la Rai che dipende da terapie conservative ed esclusa da prospettive più ambiziose; Mediaset ripiegata sullo sfruttamento del suo monopolio.

Tant’è che la Rai ha sperimentato soltanto il variare della bilancia dei poteri fra il cda e l’amministratore delegato, i ricavi del canone congelati per anni, la recente compressione del potenziale pubblicitario di Rai1, a beneficio forse illusorio del Biscione. Il “partito Rai”, in sostanza, è ancora vivo, ma abbacchiato.

Patiti Rai

Dal lato opposto, finora sempre sconfitti ma non domi, stanno i “patiti” della Rai: dipendenti, autori e intellettuali che la vedono sprecata in mezzo al dinamismo mediatico del globo.

I più passionali, alla vista del Cavallo mezzo stramazzato, constatano tradimento di quanto potremmo nel campo del soft power, un inquinamento dell’ecosistema informativo, un danno per il potenziale produttivo e per i posti di lavoro (fuori dai cancelli dell’azienda).

Per questo la riforma strutturale contrastata dal “partito Rai” è invece da questi altri vagheggiata e ancorata a due punti chiave: 1) impegnare la Rai, sì, al pluralismo, ma non delle chiacchiere e delle multiple testate, ma dell’informare obiettivo, completo e approfondito (idea tutt’altro che balzana visto che proprio in questi giorni Enrico Mentana (Tg La7) e Monica Maggioni (Tg1) annunciano la dismissione del totem dei tifi contrapposti); 2) assegnare alla Rai il ruolo di committente strategico di produzione audiovisiva nazionale capace di farsi apprezzare dagli altri oltre che da noi.

Anche qui non siamo all’anno zero perché, col sopraggiungere di Sky e Netflix, i maggiori produttori hanno trovato fior di alternative al sistema delle antiche connivenze.

In Senato

L’opposizione fra pseudo riforma e riforma strutturale sta ora dinnanzi all’VIII Commissione del Senato (Lavori Pubblici) che, a partire da fine primavera ha collazionato i progetti (disegni di legge) di bandiera e vorrebbe arrivare a concepirne uno capace di soddisfare tutti quanti. In questa settimana iniziano le audizioni di esperti che riprodurranno il modo di vedere del “partito” e dei “patiti” di cui sopra.

Sul tutto incombono le due torte statistiche che  mostrano a colpo d’occhio la fondamentale trasformazione dei rapporti di forza nel mondo media italiano fra l’inizio del secolo e l’anno attuale. 

Vent’anni or sono Rai e Mediaset si spartivano il totale della pubblicità televisiva, pari al 60 per cento degli investimenti pubblicitari rivolti ai consumatori nazionali.

La stampa contava su un terzo del mercato. La rimanenza si spargeva fra la radio e varie situazioni. Nel 2021 la quota tv risulta del 45 per cento ridotta di un quarto, la stampa è piombata dal 30 per cento al 7 per cento, mentre tutto finiva nelle mani sopraggiunte di Facebook, Google e compagnia che oggi sono arrivate al 45 per cento del mercato e paiono lanciate a prendersene una quota ancor maggiore.     

Ecco perché  Silvio Berlusconi con Mediaset e Urbano Cairo  con La7, che campano di ricavi pubblicitari, stanno provando a inventarsi la qualunque e spennano, appena possono, la Rai. Così come viene meno, in ravvicinata prospettiva, il modello di una Rai che continui a campare di un canone modesto grazie alla rendita pubblicitaria assicurata dal Duopolio di una volta.

Il dilemma: Rai locale o europea?

Di conseguenza l’VIII Commissione si trova a scegliere fra: a) lasciare che la Rai scivoli verso il ruolo  dei Servizi Pubblici “minori” (ad esempio Olanda, Austria) che contano sul contributo di popolazioni di ridotte dimensioni e si limitano a tenere alta la bandiera del locale in mezzo allo tsunami dei prodotti nati all’estero; b) spingere l’azienda del Cavallo al livello e alle logiche di quelle omologhe di Francia ed Inghilterra, rimodellandone pertanto insieme sia le risorse che la governance.

Il canone, detto “Rai” ma distolto in parte ad altre imprese, ammonta a 90 euro annuali, laddove in Francia sono 135. Mentre nel Regno Unito la Bbc dispone di un canone di  180 euro e Channel4 pur statale ma non sovvenzionato, opera in piena concorrenza e fattura un miliardo di euro sul mercato, accumulando nell’insieme una massa di risorse, per di più gestita da aziende statali no-profit, che sta alla base della fortuna delle produzioni britanniche nel mondo.

Seguire quegli esempi sarà una sfida complicata da decenni di canone additato come “la tassa più odiata” dal popolo italiano. Il partito Mediaset, poi, sarebbe sicuramente ostile alla prospettiva di una Rai dedita ad altri scopi rispetto al fare parte del Duopolio. 

Al parlamento viene richiesta una inusuale dose di eroismo. Da un lato per non cadere nella tentazione, fortissima in anno pre-elettorale, di lasciar correre le cose verso il fondo. Da un altro lato, qualora mai giungesse a fondare un sistema pubblico di nuovo conio e dotato delle risorse necessarie, dovrebbe farsi casto e astenersi dalla lottizzazione partitica.

Se aumenti gli obiettivi e le risorse,  l’amministrazione deve essere realmente indipendente, perché in caso contrario tutto quello sforzo si tradurrebbe automaticamente in un enorme spreco.

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