Nella guerra finanziaria scatenata dall’invasione russa dell’Ucraina, la battaglia in corso si combatte sul diktat di Putin: i paesi europei, se vogliono il gas russo, devono pagarlo in rubli, pena la chiusura dei rubinetti. Da qui, il taglio delle forniture a Polonia e Bulgaria, che ritengono di far valere un contratto che prevede diversamente.

L’arma del pagamento in rubli ha scarsa rilevanza economica, sia per la Russia sia per l’Europa, ma è politicamente molto efficace perché spacca il fronte dei paesi europei, distorce la percezione dell’efficacia delle sanzioni, e ingigantisce agli occhi dell’opinione pubblica il costo del sostegno all’Ucraina.  

Per capirne le ragioni, bisogna analizzare il meccanismo di pagamento imposto dal decreto di Putin. In precedenza, per pagare il gas, l’importatore dava istruzioni alla propria banca di accreditare euro sul conto di Gazprom presso la controllata Gazprombank in Europa, che non è sanzionata proprio per non interrompere le forniture di gas. Gazprom poi convertiva almeno l’80 per cento degli euro presso la Banca Centrale Russa in cambio di rubli, e gli euro convertiti entravano nelle riserve valutarie.

Il decreto di Putin impone invece all’importatore di aprire un conto in euro presso Gazprombank, su cui accreditare il pagamento, dovendo poi comprare sul mercato rubli contro euro (che però, stanti i controlli sui movimenti di capitale, può farlo solo con la Banca Centrale Russa), per depositarli in un altro suo conto sempre presso Gazprombank, e infine usarli per pagare Gazprom.

La minaccia

Dal punto di vista finanziario, il risultato non cambia: l’importatore ottiene lo stesso ammontare di gas pagando la stessa quantità di euro; e la Banca Centrale Russa ottiene la stessa quantità di valuta estera. La differenza è politica: il diktat obbliga gli importatori di gas a violare le sanzioni, acquistando rubli sul mercato, di fatto finanziando la Banca Centrale Russa.

Inoltre, poiché sul mercato dei cambi non ci sono venditori privati di rubli contro euro (gli stranieri non possono vendere attività in rubli per le sanzioni e i russi non possono comperare euro per i controlli sui capitali), il tasso di cambio del rublo, che già oggi è artificialmente gonfiato, aumenterebbe ulteriormente, dando a Putin un argomento di propaganda dalla facile presa per sostenere che le sanzioni sono inefficaci.

Per rendere credibile la minaccia, è arrivata la chiusura delle forniture di gas a Polonia e Bulgaria che ha fatto schizzare il prezzo del gas (future TTF Olanda) dai 91 euro a metà giornata del 26 aprile, ai 120 in chiusura, per poi ridiscendere fino ai 98 di ieri.

Nel frattempo il mercato si è reso conto che il blocco delle forniture a Polonia e Bulgaria aveva poche ricadute economiche: entrambi i paesi (ben sapendo cosa significhi vivere all’ombra del Cremlino), avevano già previsto di chiudere a fine anno i contratti con la Russia, avendo riserve bastanti e avviata da tempo una politica di diversificazione (con gas liquefatto americano tramite un rigassificatore nel Baltico l’una, e via Grecia con il gasdotto dall’Azerbaijan l’altra).

Ciò nonostante, la minaccia è stata efficace. Secondo Bloomberg diversi importatori europei, tra cui Eni, avrebbero accettato lo schema di pagamenti del decreto Putin. E la Commissione Europea, che se ne è stata zitta sul decreto pur conoscendolo da un mese, ha subito deciso un escamotage che salva la facciata, ma di fatto permette di ottemperare al decreto: ha infatti dichiarato che i conti in euro degli importatori aperti presso Gazprombank non violano le sanzioni, basta che poi non siano gli importatori a convertirli in rubli.

Inoltre, il diktat di Putin ha ulteriormente aumentato il premio per il rischio di uno stop alle forniture che sta inflazionando il prezzo del gas (da prima della guerra non c’è stato alcuno sbilancio fra domanda e offerta a giustificare gli aumenti), facendo balenare lo spettro di una nuova crisi dell’euro, dopo quella del 2011/2012 e del 2020: così, il cambio euro/dollaro si è subito deprezzato e lo spread del Btp è salito fino a 187 punti.

Il bluff di Putin

Quello di Putin è un bluff: senza le forniture di gas, in pochi mesi esaurirebbe anche le risorse per finanziare la sua guerra. Ma sa di poterlo fare perché l’Europa, divisa e con interessi contrastanti, non ha la determinazione per chiamare il bluff. Dunque, Putin vincerà questa battaglia. Ma perderà la guerra.

L’economia Russa dipende in modo sproporzionato dalle forniture di gas all’Europa e per questo ha investito massicciamente in infrastrutture, come i gasdotti Blue Stream, Nord Stream e Yanal, per aumentare ulteriormente la dipendenza europea dal gas russo nel lungo termine.

Ma la guerra all’Ucraina sta già spingendo l’Europa a diversificare rapidamente le fonti di approvvigionamento e aumentare il ricorso alle rinnovabili; così, tutto quel capitale investito diventerà inutile. E non sarà facile trovare altri sbocchi per il gas destinato all’Europa; e in ogni caso per costruire le nuove infrastrutture necessarie per portarlo altrove ci vorrebbero risorse economiche ingenti e molto, molto tempo

Le sanzioni, l’uscita delle imprese straniere, i costi della guerra e la caduta dei ricavi dall’esportazioni di energia e materie prime causeranno un’elevata inflazione e disoccupazione, falcidiando il reddito disponibile di un paese ricco di armi nucleari ma economicamente povero: il reddito medio pro capite nel 2020 era di 9.600 euro, appena il 40 per cento di quello italiano.

Verso il default

Ma la vera disfatta potrebbe incominciare il 5 maggio quando il Credit Derivatives Determination Committee ha decretato che due obbligazioni in dollari della Federazione Russa saranno dichiarate in default se, entro quella data, non pagherà gli interessi in dollari, cosa che però le è impedita dal blocco americano sulle sue disponibilità in valuta estera.

Questa decisione è molto rilevante perché sancisce un default per il mercato in quanto permetterà agli investitori che detengono una copertura assicurativa (credit default swaps) di richiedere il risarcimento delle perdite causate dal default.

Benchè non sia la sentenza di un tribunale, che incidentalmente non si sa quale mai potrebbe essere accettato dalle parti, poco importa ai fini della guerra economica. L’effetto di questa decisione sarà dirompente perché una dichiarazione di default significa che la Russia non troverà più capitali da raccogliere all’estero fino a quando tutte le controversie con i creditori non saranno risolte. E si sa che i default delle nazioni sono procedimenti estremamente complessi che possono durare anche un decennio.

A peggiorare le cose per la Russia, ci sono le altre forme di insolvenza: per esempio, gli aerei delle Compagnie russe sono proprietà delle società di leasing occidentali e, se tornassero a volare fuori dalla Russia prima della fine delle sanzioni, verrebbero immediatamente sequestrati dai creditori.

Per un paese la cui economia è eccessivamente concentrata su energia e materie prime, non poter ricorrere ai capitali esteri per sviluppare la propria industria, i servizi e acquisire tecnologia è devastante.

La Russia è dunque destinata a perdere questa guerra economica. E le forniture di gas all’Europa costituiscono pertanto l’unica “polizza vita” per l’economia russa.  

Capire perché Putin abbia ingaggiato adesso questa battaglia sulle forniture di gas -  una tattica per guadagnare tempo e trovare una via di uscita sul versante militare, o la mossa disperata di chi ha la mente offuscata dall’ideologia - dovrebbe essere dunque la chiave per costruire quella strategia unitaria europea che, purtroppo, non si vede.

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