A fine Cinquecento Michel de Montaigne, filosofo, politico e scrittore scettico, ma soprattutto supremo aforista, scrisse: «Non si trovano anime, o molto rare, che invecchiando non sappiano d’acido e di muffa». Le sue parole, che ammetto di aver pescato come un wikipedista qualsiasi su uno dei siti web che raccolgono citazioni e aforismi, rispecchiano l'immagine prevalente che l'acido, o meglio la sensazione acida, ha avuto nel corso della storia dell'umanità, e la declinazione respingente che ne è stata data nelle oscillazioni del gusto collettivo, perlomeno di quello della civiltà occidentale.

Facendola breve: nel corso della nostra storia l'acidità, lasciando da parte l'acidità naturale di frutta e agrumi, è stata considerata perlopiù un disvalore, in quanto segnale di un alimento che, una volta inacidito, è andato a male.

Rapporto difficile

Poco importa che i processi fermentativi, principali responsabili dell'inacidimento del cibo, potessero regalare gemme gastronomiche di straordinaria piacevolezza, come il pane a lievitazione naturale o il vino: il fatto stesso di avere una comprensione frammentaria di questi processi, unito all'incapacità di controllarne gli esiti in assenza di tecnologie moderne di conservazione dei cibi, ha fatto sì che acido e andato a male diventassero sinonimi.

Mentre il nostro linguaggio dà conto in modo esemplare di questa ricezione perlopiù negativa dell'acido, il senso dell'acido ha però continuato a oscillare. Facciamo una fatica enorme, e vale anche per la scienza, a inquadrare il rapporto tra l'acidità e le nostre papille gustative, se non fosse per l'aumento della salivazione indotto dal contatto con i cibi acidi che servirebbe a proteggere l'integrità dei denti. Mentre invece abbiamo alle spalle risposte tutto sommato più esaustive sulla reazione adattativa che i nostri gusti hanno rispetto all'amaro (segnale di cibo potenzialmente velenoso), al dolce (endorfine!), al salato (endorfine!!), e finanche all'umami (endorfine!!!).

Successo nell’alta cucina

Nonostante ciò l'acido, che fosse di origine naturale o fermentativo, da elemento dannato e in molti frangenti addirittura sinonimo di guasto, a un certo punto ha iniziato a diventare protagonista di un movimento di riscossa, se non altro nell'apprezzamento delle avanguardie gastronomiche, o dei gastrofighetti, a seconda dei punti di vista. Il pane, il vino, il cioccolato e il caffè, ma anche l'alta cucina occidentale nel suo complesso, sempre più incline a sperimentare fermentazioni e uso di frutta nei piatti salati, hanno infatti preso a inacidirsi, nel senso positivo del termine.

E tutto ciò è avvenuto a seguito di un lunghissimo periodo storico in cui erano state la dolcezza, soprattutto, ma anche la sapidità e l'umami a giocare la parte del leone: l'epoca della massificazione del cibo industriale è stata, e in buona parte lo è ancora, l'epoca dell'ingegnerizzazione del gusto attraverso mix di laboratorio di zuccheri, sale e umami.

L'acido no. L'acido è difficile, richiede tempo e applicazione. Lo scrive con precisione Mark Diacono in acido/il gusto magico che trasforma la vostra cucina: «È innegabile che la stragrande maggioranza delle persone provi un'attrazione irresistibile nei confronti del dolce e sia più cauta con i sapori acidi, non perché questi ultimi siano meno piacevoli, ma perché gli zuccheri danno un piacere immediato, accompagnato dal rilascio di endorfine. Mentre con lo zucchero (e in un certo senso anche con il sale) la gratificazione è immediata, con l'acido bisogna avere più pazienza».

La rivincita

Eppure è innegabile che gli ultimi dieci anni, in certi casi anche gli ultimi venti, siano stati testimoni di una certa rivincita dell'acidità. Il vino, tanto per iniziare: dagli eccessi delle morbidezze legnose e dei vini sovraestratti degli anni Novanta e primissimi Duemila, in cui il residuo zuccherino era la norma, dai tempi in cui l'acidità era perlopiù sinonimo di acidità acetica brutta e cattiva, al punto che il mondo della sommellerie organizzata imponeva un lessico che per definire un vino acido ricorreva (e ricorre tuttora) al termine freschezza, generando peraltro inutili fraintendimenti sulla temperatura del liquido.

Da tutto questo si è passati, perlomeno nel pubblico dei bevitori appassionati e dei professionisti del settore, a venerare l'acidità come requisito fondamentale di vini che devono essere prima di tutto vitali, tesi, dissetanti, anche qui con tutti gli eccessi del caso. Ma lo stesso potremmo dire per il mondo della miscelazione, dove ai cocktail a prevalenza dolce si sono sostituiti quelli secchi e acidi; per il cioccolato from bean to bar, in cui il volto acido figlio della fermentazione delle fave di cacao non viene più celato; o ancora per il caffè, che con il fenomeno specialty coffee sta tornando anche lui a non sminuire la propria sacrosanta natura acida, anzi a valorizzarla apertamente.

Lievitazione naturale

Vini acidi, cocktail acidi, cioccolati acidi e caffè acidi. E pane acido. Sì perché la rinascita del pane artigianale a lievitazione naturale, quello realizzato con lievito madre e farine poco raffinate, si è portata dietro l'acidità: a differenza di quanto succede con le lievitazioni condotte con lievito di birra, nella cosiddetta pasta madre infatti convivono batteri lattici, responsabili della produzione di acido lattico, e lieviti spontanei, che grazie al loro metabolismo producono acido acetico. Tra l'altro questi ultimi resistono molto meglio in ambiente acido, a differenza di quegli altri.

Motivo per cui chi si approccia ai pani realizzati con lievito madre, definito anche, e non a caso, pasta acida, noterà proprio nella loro acidità uno degli elementi distintivi più evidenti rispetto al pane industriale, che invece quell'acidità vuole smorzarla, nasconderla, escluderla, addirittura negarla, per accarezzare l'idea di una modernità dolce-salata perfettamente controllabile e replicabile identica a se stessa su scala globale. Eppure il pane è stato acido per molti secoli, almeno fino al Rinascimento, ma anche in seguito è stato spesso prodotto con lievitazioni naturali e paste acide.

Ribellione o snobismo?

Il ritorno dell’acido può essere letto come una ribellione contemporanea alla standardizzazione del cibo occidentale di fine Novecento? La diffusione di uno sguardo più consapevole su culture gastronomiche altre, in cui l'acido ha sempre giocato un ruolo importante, ha creato una feconda contaminazione?

Oppure si è delineata un'élite di gastronomi illuminati, o gastrofighetti a seconda dei punti di vista, che ha sposato l'acido per distinguersi dalla dolcezza e dalla sapidità “plebee”, e rimarcare la propria distanza dal resto del mondo? A ben vedere questo ritorno dell'acido ha un sapore elitario: alta cucina, specialty coffee, cioccolato from bean to bar, pani a lievitazione naturale, vini destinati ai bevitori più scafati e appassionati.

Sono bolle, di dimensioni variabili ma pur sempre minoritarie e pur sempre bolle. Al punto che dovremmo chiederci se per coloro che ne vivono al di fuori l'acido in fondo non sia ancora un po' guasto.

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