La settimana scorsa il governo ha varato un Dpcm che taglia in due la scuola media, permettendo solo agli studenti di prima media di fare lezione in presenza e lasciando a casa gli studenti di seconda e terza media. Ad Anita, studentessa della scuola Italo Calvino di Torino, questa decisione non è piaciuta e per questo ha deciso di manifestare il suo dissenso.

Così, ogni mattina, questa ragazza di dodici anni, va a scuola, si siede nelle scale dell’edificio e segue la lezione dal suo tablet.

Anita sta facendo l’unica cosa che un giovane può fare per farsi ascoltare, esattamente quello che ha fatto Greta Thunberg, protestare pacificamente per un diritto che le spetta, il diritto all’istruzione.

“S’impara di più a guardare i professori negli occhi che in uno schermo al computer”, come darle torto? Quello che Anita non capisce, e non è la sola, è perché in altri Paesi la scuola sia rimasta aperta garantendo a tutti i livelli la didattica in presenza.

Leggiamo da Repubblica gli interventi del ministro dei Beni culturali Dario Franceschini e della Salute Roberto Speranza e gran parte del Pd e una parte del sindacato dei docenti (perché chiamarlo sindacato scuola? nelle altre categorie, il sindacato ha il nome dei lavoratori che rappresenta) che spingono per chiudere anche la scuola primaria contro la ministra dell’Istruzione Lucia Azzolina rimasta da sola a cercare di impedirlo.

Senza dati alla mano che dimostrino che la scuola sia un luogo pericoloso per i ragazzi e le loro famiglie, questa scelta non ha giustificazioni e non può essere compresa.

Soprattutto per i più giovani, perché alla domanda “perché chiudiamo la scuola?” la risposta che la politica sta dando in questi giorni è “perché si”. Esattamente quella risposta che gli adulti spesso danno quando non hanno o voglia o tempo di argomentare.

Avevamo promesso a questi ragazzi che la scuola sarebbe stata la nostra priorità, che non sarebbe più capitato quello che invece, purtroppo, sta succedendo ancora.

Dati che giustifichino la chiusura della scuola non ci sono mentre invece diversi studi ci stanno mettendo in guardia su quello che potrà accadere se questa scelta non dovesse essere temporanea.

Una ricerca della Fondazione Agnelli stima che il minore apprendimento di oggi può valere dal punto di vista economico quasi 900 euro al mese di minori guadagni futuri, mentre secondo l’Ocse un terzo di anno scolastico perso può comportare un calo del Pil del 1,5 per cento, in media, fino alla fine del secolo, ed un 3 per cento in meno dei guadagni futuri dei nostri studenti. Questa stima è stata fatta basandosi solo sul lockdown primaverile non contando, quindi, il protrarsi dell’emergenza. Stiamo giocando con il futuro dei nostri ragazzi, senza averne pienamente coscienza.  

A febbraio ci siamo resi conto che avevamo bisogno di una scuola diversa, che desse a tutti le stesse opportunità, ma ad oggi pare non essere cambiato nulla e si continua a lasciare indietro i più fragili.

Sono ancora 300mila gli studenti senza pc o connessione e gli 85 milioni stanziati con il Dl Ristori per l’acquisto di nuovi strumenti digitali e chiavette usb non bastano neanche lontanamente a coprire il fabbisogno emerso ad inizio anno scolastico.

La scuola dovrebbe essere aperta a tutti ma così non è stato durante il primo lockdown e tanto meno lo è adesso.

Mentre sono al telefono con Cristiana, la mamma di Anita, mi appunto una frase: “I ragazzi sono il nostro futuro, loro non possono votare e l’unico modo che hanno per farsi sentire è protestare”, la politica non può più continuare a decidere senza interessarsi dei più giovani, perché a loro il coraggio non manca e non tarderanno a farsi sentire, ci saranno tante “Anita”, esattamente come continuano ad esserci tante “Greta”. E prima o poi dovremo ascoltarle.

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