Lo Smart working non è una novità transitoria ma un cambiamento del lavoro reso possibile dalla rivoluzione digitale e accelerato dalla pandemia.  
Per la verità ciò che abbiamo visto in questi mesi non e’ lavoro Smart. Piuttosto telelavoro, il cui svolgimento è stato condizionato oltre che dai vincoli legati al Covid, dalla qualità della connessione, dell’hardware e dalla funzionalità dell’abitazione.

Si è trattato comunque del più grande esperimento organizzativo di tutti i tempi. Così Domenico De Masi ha definito il salto da 570.000 Smart worker a 8 milioni in pochi giorni. 

Tutte le rilevazioni di questi mesi confermano un gradimento alto da parte delle persone e delle imprese , come risultato  del bilancio tra vantaggi e svantaggi. Che pure esistono e devono  essere affrontati e risolti. Dalle parti sociali e dal legislatore, per ciò che attiene alla regolazione del lavoro e la riorganizzazione delle imprese. Dagli amministratori per ciò che riguarda una nuova e più equilibrata configurazione urbana.
Il lavoro intelligente, lo «Smart working maturo»,  secondo la definizione di Mariano Corso responsabile scientifico  dell’Osservatorio del Politecnico di Milano, dovrebbe diventare a regime una articolazione produttiva svolta in autonomia dalle persone, con responsabilità e libertà.  Non necessariamente da casa.

Richiede l’acquisizione di abilità e competenze.  Presuppone il cambiamento innanzitutto della cultura di impresa e della sua organizzazione.

Nello Smart working cambia la relazione tra impresa, lavoratrice e lavoratore, cambia il ruolo del management. Quindi cambia la regolazione del lavoro. E per questo cambierà anche la cultura sindacale. 
A chi svolge lavoro agile vanno riconosciuti diritti e doveri, equa retribuzione, libertà sindacali, sicurezza, hardware e connessione adeguata.

Diritti appropriati a tutelare e valorizzare nella prestazione di lavoro, quella “libertà” di cui parlava Bruno Trentin all’inizio del 2000, nel passaggio tra il capitalismo del Novecento e le nuove forme della produzione.
All’osservazione di Norberto Bobbio, secondo cui bisogna sempre precisare cosa si intende per libertà, Trentin rispondeva che essa non può che essere la libertà della persona nel rapporto di lavoro.

In questo senso Trentin motivava l’aspirazione dei lavoratori  a maggiore autonomia e creatività nel lavoro attraverso l’esercizio del loro diritto alla conoscenza e al sapere. 
La rivoluzione digitale nel lavoro, di cui lo Smart working è un aspetto, rende oggi quel traguardo possibile. Necessario per la stessa qualità del processo produttivo. Non automatico. 
Sul piano dei diritti serve un nuovo architrave che li sorregga. Se l’articolo 18 contro i licenziamenti senza giusta causa lo è stato per lo Statuto  dei lavoratori degli anni Settanta, il diritto al digitale e alla formazione permanente lo possono essere per il lavoro del futuro.

Se il lavoro di domani non potrà essere ripetitivo e procedurale, ma basato sulla creatività, l’intraprendenza, la progettazione e l’adattabilità, a tale previsione non potrà che corrispondere sul piano delle politiche la formazione 4.0, un insieme cioè di misure e scelte, strutturali e finanziate adeguatamente, per accompagnare le persone e le imprese nella transizione verso nuovi modi di guardare al lavoro. E per rinnovare il sistema scolastico. 
Sarebbe però un errore grave valutare l’impatto enorme della rivoluzione digitale sui processi produttivi e immaginare una formazione rivolta solo ai lavoratori , agli smart worker.

I destinatari dovranno invece essere tutti perché ognuna delle funzioni di impresa dovrà essere coinvolta nel passaggio dalla organizzazione produttiva piramidale a controllo gerarchico a quella per progetti con valutazione dei risultati.

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