Le mie giornate sono scandite da una certa routine, come quelle di tutti. Tra gli appuntamenti fissi c’è al mattino, mentre accompagno i miei figli a scuola, l’ascolto su RadioDue de Il ruggito del coniglio, programma cult che va in onda da 25 anni, di satira intelligente e garbata, di sguardo ironico su piccoli e grandi fatti del mondo. Ogni tanto l’attualità fa capolino, soprattutto dopo l’edizione delle 8 e 30 del giornale radio. E stamattina, rientrando in studio, i conduttori del Ruggito hanno sospeso per un attimo le battute e le goliardie, per dire: «Certo che è incredibile che uno che ha fatto tutti questi omicidi, ha ucciso giudici, donne e bambini, sia adesso in libertà… eh... vabbè…».

L’uno è Giovanni Brusca, il più cattivo e spietato tra i boss mafiosi, il porco, la bestia, il nostro 666. E la sua scarcerazione, per espiazione della pena, è una cosa che travolge tutti: non solo giornalisti e addetti ai lavori, esperti e parenti delle vittime, ma ognuno di noi, me che accompagno i bambini a scuola, come i conduttori del programma del mattino.

Invidio sempre, in questi casi, quelli dal tweet facile, i centometristi dello scandalo. L’assessore leghista alla cultura della Regione Siciliana, Alberto Samonà, subito dopo aver appreso la notizia, già scriveva: «Una vergogna totale». Tre parole.

Tutto il mio pensiero sta invece in un’intercapedine, ed è lo spazio dei puntini di sospensione tra «il più sanguinario dei mafiosi è tornato in libertà» e il «vabbè» del conduttore radiofonico.

Centocinquanta omicidi, giudici, donne e bambini uccisi. Ecco chi è Giovanni Brusca, come leggiamo un po’ dappertutto in queste ore. E a chi non vuole credere basta fare sentire l’audizione di Brusca, in un processo, in cui racconta la preparazione dell’omicidio del piccolo Giuseppe Di Matteo, strangolato e sciolto nell’acido a soli 12 anni. «Avevamo preparato due fusti di acido».

Il fatto è che, però, nello spazio dell’intercapedine, nei puntini di sospensione, si cela come un’inquietudine, che ti porta a cambiare paradigma, e a ribaltare un poco il ragionamento e la domanda. Che di fronte a questa vicenda come ad altre analoghe («E’ giusto scarcerare un boss in fin di vita?», ad esempio) non è: chi è Brusca, chi è Riina? Chi è Messina Denaro? Ma è un’altra, e ha a che fare con il più antipatico, ostile e traditore dei pronomi, il noi. La domanda, infatti, è: chi siamo noi?

Già, chi siamo noi?  È su questo che dobbiamo interrogarci. Chi siamo noi? Noi siciliani, noi popolo dell’antimafia, noi che sappiamo le frasi di Falcone e ci vediamo su Youtube i pezzi del maxiprocesso, noi che i lenzuoli e i nomi delle vittime in piazza, noi che la legalità a scuola perché Bufalino diceva quelle cose sull’«esercito di maestre elementari», noi che Peppino è vivo e lotta insieme a noi. Noi, chi siamo?

Siamo quelli che vogliamo vendetta? O siamo quelli che vogliamo giustizia?

Se il nostro tempo è il tempo della vendetta, Brusca deve morire in carcere, nella più dura delle condizioni, senza luce e senza conforto, il suo corpo quando verrà il momento (e sarà sempre troppo tardi) sarà bruciato e i resti sperduti in terra maledetta.

Se il nostro tempo è quello della giustizia, non dimentichiamo né dimenticheremo l’orrore di Brusca e della mafia, le vittime innocenti. Accoglieremo l’uscita di Brusca dal carcere come quella di chiunque altro, perché questa è la legge, questo è il diritto, questa è la civiltà che difendiamo contro la prepotenza mafiosa. E il fatto che anche uno come Brusca sconti la sua pena e possa uscire un giorno dalle patrie galere, è la dimostrazione di quanto siamo forti, di quanto forte e tranquillo sia lo Stato. Noi.

Che poi Brusca esce dal carcere perché ha avuto una pena breve, nonostante i tantissimi omicidi, perché ha collaborato con la giustizia, ottenendo degli sconti sulla sua reclusione. Lo avrà fatto per calcolo e per convenienza, avrà detto quasi tutto o anche meno, ma ha collaborato, grazie a lui si è fatta luce su decine di omicidi - molti suoi - e dal suo punto di vista, Brusca è uno che ha aiutato la giustizia italiana.

In questi casi, come avvenne anche un paio di anni fa, quando per Brusca si stava valutando la possibilità dei domiciliari, il canovaccio del dibattito comprende sempre l’intervista ai parenti delle vittime di mafia, la cui autorevolezza di pensiero aumenta a seconda del grado di rilevanza istituzionale del morto. Più è nota la vittima, più la testimonianza del parente è ritenuta pesante, autorevole, pregiudiziale.  A loro, tra l’altro, lo Stato non è riuscito, in molti casi, a garantire giustizia, e dunque rimane, per senso di colpa collettivo, la compensazione della vendetta.

Nel caso di Brusca, poi, il pensiero corre al piccolo Giuseppe Di Matteo, e al padre Santino. Che infatti viene contattato, e a domanda risponde che è incredibile che uno «scannacristiani» come Brusca sia di nuovo in libertà e ha parole durissime per lui, per lo Stato italiano che permette che un boia come lui torni in circolazione: «Lui è libero di prendersi un caffè, mentre noi …».

E parla un padre al quale hanno rapito, torturato e ucciso il figlio, quindi come non compatirlo. Noi vogliamo vendetta.

Oppure vogliamo giustizia. E allora dovremmo ricordare che Di Matteo ha collaborato con la giustizia tanto quanto Brusca, ed è stato mafioso tanto quanto Brusca. Ha partecipato all’ideazine della strage di Capaci, come Brusca. E quando nel 2002 tornò in libertà, i giornali titolavano: «Tornano in libertà i killer di Capaci». Ed è accusato di aver ucciso dieci persone. E se dovessimo chiedere ai parenti di queste vittime, chissà cosa direbbero: «Lui può fare interviste, mentre noi…».

Chi siamo noi? Vogliamo vendetta o vogliamo giustizia? Se vogliamo vendetta continuiamo a macerarci con il crucifige e il devi morire da stadio, affiliamo i coltelli, prepariamo imboscate. Siamo i buoni, ci è permesso tutto.

Se vogliamo sconfiggere davvero la mafia, se vogliamo giustizia, con la G maiuscola o minuscola non importa, se la vogliamo davvero peraltro dovremmo indignarci, non per Brusca.

Ieri, mentre il portone del carcere di Rebibbia si chiudeva alle spalle del boss, nella sua terra, in Sicilia, avveniva una cosa. Si teneva un importante processo di mafia, a Palermo, in appello, contro la temibile famiglia di Brancaccio. In primo grado c’erano state già pesanti condanne. L’appello era quasi una formalità. Quasi. Perché i giudici si sono accorti di un cavillo, di un problema di incompatibilità. Morale: tutte le condanne annullate, tutto il processo da rifare. Imputati che tornano liberi, con tante scuse. Nipoti di spietati killer di mafia, estortori dediti alle slot machine come al racket delle onoranze funebri. Tutti liberi, tutti da rifare. Per un cavillo, una distrazione.

Ma noi non ce ne siamo accorti. Cercavamo vendetta, mica giustizia. Ormai è la nostra routine.

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