Il 4 novembre è stata ufficializzata l’uscita degli Stati Uniti dagli accordi di Parigi sul clima. Si tratta dell’esito di un processo iniziato il primo giugno 2017, quando Trump nei primi mesi del suo mandato presidenziale aveva annunciato la scelta di abbandonare il trattato. Rendendo gli Stati Uniti il primo Paese ad uscire dall’accordo e nettamente il più grande e importante tra i non-aderenti.

Curiosamente, l’ufficialità è arrivata il giorno dopo l’Election Day, che ha decretato la non riconferma di colui che aveva promosso l’uscita dagli accordi, Donald Trump. Il suo successore, Joe Biden, aveva dichiarato in campagna elettorale che avrebbe fatto richiesta per rientrare il giorno successivo al suo insediamento, e che l’iter sarebbe stato relativamente semplice e veloce. Sarebbe bastato spedire una lettera, e 30 giorni dopo la decisione sarebbe stata effettiva. Ma Biden potrebbe trovare davanti a sé un percorso molto più difficile.

Se servisse un voto?

Già nel 2016 Barack Obama, che pure era stato tra i proponenti del trattato, per ottenere la ratifica degli Stati Uniti si era trovato contro il meccanismo legislativo che impone che i trattati internazionali siano ratificati dal Senato con i 2/3 dei voti. Obama aveva aggirato il meccanismo con l’emissione di un ordine esecutivo, sottolineando il carattere volontario e quindi non vincolante dell’accordo. Il che ne rendeva inutile, quindi, un’eventuale ratifica del Senato. Ma su questo tema la giurisprudenza è molto divisa. Se l’avvocatessa Lavanya Rajamani – docente di Diritto ambientale ad Oxford e parte del team che ha lavorato alla stesura del trattato – sottolinea il carattere misto delle «Hard, soft and non-obligations» contenute nell’accordo, rendendolo un ibrido tra tipi di documenti diversi, il professor Eugene Kontorovich della Antonin Scalia Law School sostiene che alcuni elementi, come i lunghi tempi necessari per l’uscita e l’ampia struttura multilaterale dell’accordo, propendono perché questo venga considerato come un trattato, e non un semplice ordine esecutivo.

Soprattutto, se Biden dovesse provare a rientrare sfruttando lo stesso meccanismo sfruttato da Obama, i Repubblicani potrebbero decidere di impugnare la decisione per vie legali. In questo caso, potrebbe essere per la prima volta messa alla prova la nuova Corte Suprema a stragrande maggioranza repubblicana, dopo la nomina di Amy Comey Barrett da parte di Trump nelle scorse settimane. Quel che è certo, però, è che la vicenda del ritiro dagli accordi di Parigi degli Stati Uniti ha messo in evidenza alcuni grandi limiti della legislazione internazionale e non sulle tematiche ambientali.

Un problema legislativo

David Bodansky e Peter Spiro, due docenti universitari rispettivamente di diritto ambientale e internazionale, nell’ottobre 2016 scrivono un articolo accademico intitolato “Executive Agreements+”. Il testo compare in seguito alla già menzionata decisione di Obama di aderire agli accordi di Parigi tramite ordine esecutivo, ma non si limita a commentare l’accaduto o a valutarne semplicemente la correttezza, che sussiste, secondo l’articolo, in quanto Obama agisce in maniera coerente con altre legislazioni ambientali approvate al congresso. Bensì, prova ad andare oltre, e indica come via maestra per una nuova legislazione climatica negli Usa proprio un paradigma che sia a metà tra l’ordine esecutivo e uno approvato dal Congresso o dal Senato, che sia supportato ma non esplicitamente approvato da parte delle Camere. L’adesione agli accordi di Parigi rientrerebbe perfettamente in questa categoria, che è destinata ad assumere in futuro un ruolo sempre più preminente. A causa della crescente polarizzazione in atto nella politica statunitense, che non permette di legiferare ottenendo largo consenso nelle Camere – soprattutto quando almeno una delle due è controllata dal partito opposto al presidente. Ma anche perché alcune questioni internazionali, come la crisi climatica, necessiteranno sempre più di accordi multilaterali, rapidi e immediati che potranno poi essere corretti, in caso, da interventi ex post delle Camere.

Un’altra criticità, infine, viene messa in evidenza da Mario Gervasi, docente di diritto internazionale alla Sapienza: se le altre parti dell’accordo dovessero contestare agli Stati Uniti i danni ambientali provocati dalla sospensione dell’applicazione del trattato, entrerebbero in un vortice giuridico causato proprio da quel mix di misure più o meno obbligatorie di cui in precedenza. Uno stallo che il nostro pianeta non può permettersi.

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