Il 20 giugno l’azienda che produce gli aspirapolveri Roomba ha festeggiato un milione di esemplari venduti in Italia. In 15 anni questi dischi semoventi hanno raccolto 360 mila chilogrammi di polvere equivalenti a 61mila elefanti, ci informa il Corriere della Sera. Ma non è questo l’aspetto interessante. Il traguardo è stato raggiunto al termine del lockdown. E non pare essere un caso: guardate i robot Roomba e capirete perché il mondo dopo il Covid sarà diverso.

Markus Brunnermeier, un famoso economista di Princeton, lo ha chiamato “effetto Roomba”: scoppia la pandemia, le famiglie licenziano le persone che si occupano di pulizie domestiche per timore del contagio e ordinano su Amazon un robot Roomba per evitare di usare scopa e paletta.

Poi il lockdown finisce ma il robot rimane. E chi faceva le pulizie ha perso il posto, o magari lavora soltanto due ore invece di quattro ogni settimane. Perché la tecnologia ha cambiato in modo permanente il suo mercato di riferimento.

Ecco, se dovessi citare una delle sfide più impegnative per Domani nei prossimi mesi partirei dall’ “effetto Roomba”: per quattro mesi abbiamo ibernato l’economia. Ora è arrivato il momento di scongelarla. Ma l’ibernazione ha cambiato tutto. E ora bisogna decidere se cercare di riportare tutto come prima oppure invece prendere atto del cambiamento.

E’ un dilemma complesso per chi è al governo. Per stare al problema delle pulizie: per aiutare chi ha perso il lavoro ed è stato sostituito dal robot, vogliamo mettere nuove tasse sul possesso di una macchina Roomba, per scoraggiarne l’acquisto e incentivarne lo smaltimento, oppure aiutare le tante donne impiegate nel settore delle pulizie, spesso in nero, a riqualificarsi e a trovare una nuova fonte di reddito?

Riqualificare persone con bassa istruzione e attive in settori a basso valore aggiunto, specie in settori che richiedono contatto fisico, è una impresa titanica in tempi normali, figurarsi nel contesto della crisi più grave dell’ultimo secolo.

Però è fondamentale prendere atto che certi stili di consumo sono cambiati e che forse dovremmo accelerare la transizione, invece di combatterla. Sono tornato dagli Stati Uniti da circa tre settimane, anche dopo aver terminato il lockdown obbligatorio non ho ancora mai fatto una vera riunione in presenza, tutto via Zoom o Microsoft Teams. Non sono ancora andato neppure al supermercato: dopo averlo sperimentato a Chicago durante i mesi di clausura domestica, anche a Roma ho trovato un servizio che consegna a domicilio frutta, verdura e carne (pure di produttori locali).

Non mi verrebbe mai in mente di andare al cinema, ma per la prima volta in vita mia ho noleggiato film da Amazon, e mi sono sentito di nuovo negli anni Novanta quando ancora esisteva Blockbuster (ricordate le videocassette?).

Piccole cose, direte voi. Ma se pensate a come sono cambiate le nostre priorità in questi mesi e a che impatto hanno avuto questi cambiamenti sulla vostra produttività, vi renderete conto che siamo davvero in un altro mondo. Ma quali saranno le conseguenze e, soprattutto, l’impatto sociale di questi sconvolgimenti?

Raj Chetty di Harvard, uno degli economisti più importanti della sua generazione, sta coordinando un progetto rivoluzionario per molti aspetti. Usa dati forniti da aziende private, dai pagamenti con le carte di credito alle ricerche di lavoro on line, per monitorare in tempo reale l’impatto del Covid con una rapidità che le fonti ufficiali non possono avere.

Tra i molti risultati della prima fase della sua ricerca, ce n’è uno molto interessante che vedete riassunto nel grafico qui sotto. La spesa per consumi del 25 per cento più povero della popolazione americana è variata meno di quella del 25 per cento più ricco. A marzo, nel momento di lockdown massimo, i più ricchi hanno ridotto i consumi del 31 per cento, i più poveri del 23. A giugno, nella fase 2, i poveri consumano soltanto il 3 per cento in meno di un anno fa. I ricchi il 17 per cento in meno.

Non è difficile capire perché: chi ha un reddito basso, non può ridurre più di tanto le spese mensili. I soldi che arrivano sul conto corrente finiscono tutti in bollette, affitto o mutuo, spesa al supermercato. I più benestanti hanno molta più varietà di consumo e con il virus hanno tagliato spese sconosciute ai più poveri: il teatro, le terme, il ristorante, il weekend fuori porta, le cene di lavoro…

Il problema è che i consumi da ricchi richiedono il lavoro di molti lavoratori a basso reddito, quindi il crollo della loro spesa mensile non riduce la disuguaglianza ma la esaspera.

I dati che Raj Chetty analizza riguardano gli Stati Uniti, ma non c’è ragione di pensare che in Italia la situazione sia diversa.

L’evoluzione dei nostri stili di vita in modo così rapido e inatteso avrà delle conseguenze difficili da prevedere ma sicuramente traumatiche.

In Italia abbiamo cercato di attutire lo shock con gli strumenti tradizionali, come la cassa integrazione, e il blocco dei licenziamenti che scade a metà agosto. Ma il cambiamento è in corso, anche se ancora non se ne vedono tutti gli effetti.

Mai come in questo momento è stata importante una informazione precisa e capace di andare oltre gli schemi consolidati. Perché una lettura superficiale della crisi può spingere a investire miliardi dove non servono e a lasciare scoperte le fasce più deboli, quelle che invece meritano la maggiore tutela.

Come giornale saremo particolarmente attenti all’ “effetto Roomba” e daremo voce a tutti quelli che ne saranno le vittime. Ma con la stessa attenzione racconteremo chi invece guadagnerà nel nuovo contesto. Non perché pensiamo che il profitto sia sbagliato, specie se deriva dall’innovazione tecnologica. Ma perché le disuguaglianze hanno corroso le nostre democrazie già prima della crisi, dobbiamo evitare che peggiorino nella fase post-Covid.

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