Come ogni giornale che nasce, anche noi di Domani abbiamo iniziato ad aprire le pagine sui social network: Twitter, Facebook, Instagram. Un gesto quasi automatico, inevitabile. Ma poiché arriviamo ultimi, dopo oltre un decennio di tentativi e fallimenti di integrare il settore dei media in questo contesto, abbiamo almeno il vantaggio della consapevolezza: Facebook non è un prezioso alleato che ci permette di dare visibilità ai nostri contenuti. E’ un concorrente scorretto che ci sottrarre parte dei ricavi pubblicitari, un nemico in agguato pronto a rubare i dati dei nostri lettori e a compromettere la loro fiducia in noi, ma è anche qualcosa di peggio.

In quella parte sempre più rilevante della nostra vita che è lo spazio digitale, Facebook è un potere assoluto che contende ai governi il monopolio nell’uso della forza, può censurare opinioni sgradite al potere o sostenere l’opposizione, anche nelle sue degenerazioni eversive e violente (nonostante le regole interne del social network lo proibiscano). Oggi parliamo di Facebook, ma il discorso non è molto diverso per Google o Amazon. Twitter è un caso a parte, ma ci torneremo.

Negli ultimi giorni l’azienda di telecomunicazioni Verizon, Ben & Jerry's (gelati), North Face (abbigliamento) e altri marchi noti hanno annunciato di sospendere la pubblicità su Facebook, che ormai è insieme a Google una delle piattaforme più importanti. Rimproverano al social e al suo amministratore delegato, Mark Zuckerberg, di aver tenuto un comportamento irresponsabile durante le tensioni seguite alla morte di George Floyd, soffocato dalla polizia di Minneapolis.

Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump usa i social per sobillare la parte più violenta del suo elettorato. Il 29 maggio Trump ha twittato “when the looting starts, the shooting starts”: quando iniziano i saccheggi, si comincia a sparare. L’espressione è stata coniata da Walter Headley, un capo della polizia di Miami che nel 1967 minacciava così il movimento per i diritti civili.

Twitter ha oscurato il tweet di Trump perché “ha violato le regole di Twitter sull’esaltazione della violenza”, ma lo ha reso comunque accessibile perché “di pubblico interesse”.

Mark Zuckerberg non ha preso alcuna iniziativa.

Considerato un tempo un’icona dei liberal, portatore di progresso e dinamismo, da tempo Zuckerberg ha deciso di scommettere su Trump. Non soltanto lo ha incontrato in privato più volte, assieme allo storico investitore in Facebook Peter Thiel, ma dopo averci pensato per mesi ha deciso di non cambiare le regole sulla disinformazione durante la campagna elettorale del 2020.

Tutti i comportamenti che hanno intossicato - e condizionato - quella del 2016 restano leciti: diffondere informazioni false e il micro-targeting, cioè presentare messaggi di propaganda diversi a specifici gruppi di elettori (senza che gli altri possano vederli). Quattro anni fa Trump ha vinto anche grazie a queste tattiche, che hanno permesso ai suoi uomini come Brad Parscale di conquistare voti e agli emissari russi agli ordini del Cremlino di sostenerlo contro Hillary Clinton.

Zuckerberg ha gli strumenti per condizionare le elezioni più di qualunque magnate del passato: somma l’influenza degli editori di giornali, la penetrazione dei proprietari di network televisivi con le risorse illimitate dei grandi magnati e le capacità tecnologiche degli innovatori. Per fare un paragone italiano, pensate a una fusione di Silvio Berlusconi, Gianni Agnelli, Gianroberto Casaleggio e Matteo Renzi (per giovane età e ambizione) e ancora avrete un quadro parziale.

Facebook continua a sostenere di essere uno spazio neutro, non un editore: tutti devono essere liberi di esprimere le proprie opinioni, senza controllo editoriale o censure. Questo evita a Facebook di dover rispettare tutti i requisiti che vengono (giustamente) imposti a noi giornalisti: controllo delle fonti, precisione, continenza verbale. Negli Stati Uniti questo privilegio è garantito da una legge del 1996 che ora Trump vuole rivedere per ritorsione contro Twitter che aveva classificato un suo post come inattendibile.

Facebook però viene meno anche alle sue responsabilità come infrastruttura neutrale. E viola perfino le proprie regole interne che impediscono di usare la piattaforma per programmare azioni violente. Per mesi Tech Transparency Project, un’organizzazione americana, ha denunciato che il social network di Zuckerberg veniva usato dai suprematisti bianchi che progettavano il “boogaloo”, cioè una nuova guerra civile per rimettere i neri e le altre minoranze al loro posto.

Tech Transparency Project ha contato 125 gruppi privati dedicati al “boogaloo”, il 63 per cento dei quali creati tra febbraio e aprile, nel pieno dell’emergenza Covid che i suprematisti hanno visto come lo shock esterno che poteva offrire l’occasione per azioni violente. Stiamo parlando di esaltati con fucili mitragliatori nello sgabuzzino che si coordinano sognando stragi e linciaggi attraverso gruppi privati, sconosciuti alle autorità ma monitorati da Facebook. Che non ha fatto nulla finché alcuni di questi esaltati non sono stati arrestati.

Niente di inedito: in Italia per anni Selvaggia Lucarelli ha denunciato i gruppi privati che inneggiavano a stupri e violenze sulle donne, Facebook li ha chiusi soltanto nel 2017.

Per quanto riguarda noi di Domani, Facebook sarà più un potere da monitorare con attenzione e intransigenza che uno strumento di lavoro.

Certo, su Facebook ci staremo e saremo anche su Instagram, che è sempre di proprietà dell’azienda di Mark Zuckerberg. Ma con prudenza e con la consapevolezza che Facebook lavora contro di noi, non per noi.

Negli Stati Uniti Facebook e Google controllano circa il 60 per cento del mercato pubblicitario on line. Ma le due piattaforme non si limitano a vendere spazi pubblicitari alle imprese che vogliono raggiungere potenziali clienti, bensì controllano anche il software che stabilisce quali annunci appaiono agli utenti e - cosa ancora più inquietante - il software che i giornali devono usare per mettere all’asta gli spazi pubblicitari con i quali si finanziano.

In pratica Facebook e Google hanno diritto di vita e di morte sui media che dipendono dalla pubblicità. Ma, dopo aver distrutto il loro modello di business, si comprano il supporto dei giornalisti con pochi spiccioli, tra borse di studio per reporter e finanziamenti ai gruppi editoriali.

Con Domani noi eviteremo di cadere nella trappola. Per riuscirci, però, le buone intenzioni non bastano. E per essere davvero indipendenti bisogna avere una solida base di abbonati che ci permetta di non essere ricattabili dagli inserzionisti e, soprattutto, dalle piattaforme che intermediano la pubblicità.

Io posso promettervi che ci occuperemo di Facebook, Google e Amazon in un modo diverso da quello a cui siete abituati. Il resto dipende da voi, se ci darete fiducia abbonandovi avremo la forza per svolgere al meglio questo compito. Uno dei nostri giornalisti di inchiesta è già al lavoro su questo tema, per ora non posso dirvi di più ma a settembre leggerete tutto.

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