«Povero è una parola triste, che ha perso dignità nel tempo. Povero non è più il contrario di ricco ma l’opposto di vincente. Chi è povero ha perso e quindi sta fuori dal gioco, nessuna o pochissime possibilità di rifarsi, sempre meno. L’ascensore sociale si è bloccato da anni e ormai funziona solo in discesa, dai piani bassi ai sotterranei». Non usa giri di parole Carlo Verdelli nel pezzo che firma per il numero 250 di Scarp de’ tenis, numero speciale che celebra i 25 anni del giornale di strada. Perché giri di parole non servono in un paese che ha visto la povertà assoluta, quella dove ogni minimo bisogno è un problema, allargarsi come una macchia senza argini.

I nuovi poveri

In 25 anni l’Italia è cambiata profondamente e, in maniera altrettanto radicale, si è trasformato il mondo di chi nel nostro Paese vive ai margini. Per effetto delle migrazioni è mutato l’identikit degli esclusi per antonomasia, i senza tetto. Gli homeless oggi sono più giovani, più istruiti, potenzialmente più capaci di contribuire alla società di ieri e nonostante ciò restano tagliati fuori. Non solo. Due grandi crisi hanno retrocesso agli ultimi posti chi stava, faticosamente, affrancandosi un poco più avanti. L’aumento delle disuguaglianze ha creato un fossato sempre più profondo e invalicabile tra chi ha e chi non ha. E si può essere poveri, pur avendo un lavoro. Eppure, l’ultimo quarto di secolo è stato segnato da alcune conquiste per chi sta in fondo alla fila: la residenza anagrafica che consente a chi non ha un domicilio di farsi curare e il riconoscimento delle esibizioni, che si tengono in strada, come forma d’arte, progetti sociali improntati a nuovi modelli. Ancora troppo poco per le famiglie che vivono sotto la soglia di povertà, una marea costantemente in aumento e che a causa della pandemia rischia di esondare. Erano il 4,2 per cento nel 2010, sono più di 5 milioni e mezzo nel 2020, il 9,4 per cento. E chissà dove arriverà nel 2021, nell’autunno post pandemia. «Il sismografo della Caritas, piazzato sulle strade d’Italia — scrive ancora Verdelli — registra che quasi una persona su due di quelle che chiedono aiuto non era mai venuta prima alle mense, nei centri d’ascolto. Una bomba sociale, per ora sottotraccia e taciuta, che meriterebbe non degli artificieri per disinnescarla o degli illusionisti per farla scomparire».

Un lungo percorso

Nel numero speciale, Scarp de’ tenis ripercorre questo lungo percorso. E lo fa grazie al contributo di grandi firme del mondo della cultura, del giornalismo, dell’impegno civile e delle istituzioni. Un affresco inusuale del Paese firmato da Carlo Verdelli e Ferruccio De Bortoli, dal presidente del Parlamento europeo David Sassoli, dal  fondatore di Slow Food Carlo Petrini, da Giacomo Poretti, da don Luigi Ciotti e don Virginio Colmegna che da direttore di Caritas Ambrosiana nel 1996 volle fondare Scarp de’ tenis con l’intento di «dare voce a chi non ha voce». E Mario Delpini, vescovo di Milano, così scrive nel suo messaggio a Scarp: «Credo che senza questo giornale la città sarebbe più muta, la distrazione sarebbe più autorizzata, e chi passa oltre indifferente avrebbe meno sensi di colpa. Ma ci sono storie che le vetrine dei negozi non sanno raccontare».

Quello che ne esce, insomma, è un affresco dove per una volta il “mondo di sopra” di chi ce la fa e quello “di sotto” dei sommersi, sono compresi in un unico quadro grazie al quale lo sguardo può proiettarsi in avanti ed immaginare un futuro migliore. Un futuro dove tutti possono trovare un posto, come nella grande casa che l’architetto e designer Michele De Lucchi ha disegnato in copertina: «Un tesoro costruito mattone sopra mattone, emozione dopo emozione». Un futuro dove finalmente Gli altri siamo noi. Sulla stessa lunghezza d’onda Ferruccio De Bortoli che, nel suo contributo per Scarp, scrive: «Il capitale sociale di un Paese cresce in gesti disinteressati, frutto della buona volontà e di un cuore aperto. Non di un calcolo di convenienza o nella fredda determinazione dell’ipotetico risultato. Il dono è anche uno slancio dell’anima, non solo un investimento nel bene. Esistono sempre alternative migliori, ma spesso non c’è il tempo per valutarle. E chi ha bisogno è una persona, solo una persona». E «Quando un capitale sociale è robusto, diffuso — come testimoniano le tante realtà del Terzo Settore — non stanno bene soltanto le persone assistite, ma vivono meglio anche i donatori e la società di cui fanno parte».

Nello specifico, guardando ai giornali di strada e ai loro venditori — homeless, gravi emarginati, disoccupati di lungo corso — è semplicemente una questione di giustizia sociale. Nel mondo esistono più di cento giornali di strada come  Scarp de’ tenis. Prodotti editoriali di grande qualità venduti da persone espulse dal mondo del lavoro e quasi sempre private dei diritti fondamentali di cittadinanza. È la rete Insp (International Network of Street Papers), l’ong con sede a Glasgow nel Regno Unito, che unisce insieme tutti i giornali di strada del mondo. Un network con numeri da capogiro. Oltre 100 giornali di strada pubblicati in 35 Paesi e in 25 lingue diverse, che danno un lavoro e un reddito a più di 20.500 venditori. E che permettono di raggiungere una platea di quasi cinque milioni di lettori nei cinque continenti dove i giornali sono pubblicati.

Il network

Da Tokyo a Seul, da Londra a Melbourne, da Milano a Buenos Aires, da Stoccolma a Chicago. E il dato che più colpisce è quanto resta ogni anno nelle tasche dei venditori: più di 27 milioni di euro.  «Da più di 25 anni — dice Maree Aldam, Ceo di INSP — il nostro network è vicino al movimento dei giornali di strada di tutto il mondo e alle decine di migliaia di persone senza dimora che ogni anno si guadagnano da vivere vendendo i giornali di strada. Abbiamo assistito in questi anni a cambiamenti di natura sociale ed economica importanti, che hanno generato per i giornali di strada nuove sfide. La recessione economica e l’impoverimento delle famiglie hanno poi avuto un forte impatto sulle povertà e sui fenomeni di homelessness nelle nostre città». Se a ciò si aggiungono i fenomeni migratori, la disoccupazione crescente e la mancanza di soluzioni abitative per le fasce meno abbienti della popolazione il quadro, che è andato modificandosi anno dopo anno, mostra più ombre che luci.  La pandemia ha messo tutti i giornali di strada del mondo a dura prova. Molte pubblicazioni sono state costrette lo scorso anno a sospendere la stampa, costretti dai lockdown nei diversi Paesi. E un’altra sfida già si affaccia: la sfida del digitale. I giornali di strada vivono grazie all’edizione cartacea, all’importanza della relazione che lega chi acquista la copia con chi la vende. La trasformazione verso il digitale obbliga a uno sforzo di fantasia e a trovare nuove idee. Come quelle già attuate da Straatniews il giornale di strada olandese che, prima ancora di Scarp de’ tenis, riuscì ad ottenere un’intervista esclusiva con Papa Francesco nel 2015. Straatniews, da pochi mesi, ha deciso di abbandonare il cartaceo e di lavorare esclusivamente sull’edizione digitale. Con risultati ancora troppo acerbi per poter essere valutati.

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