Degli Stati Generali Cinque Stelle, evento consumato on line come si impone, so quanto riferito da giornali e tivù col corredo di qualche intervista e alberelli genealogici sulle correnti in capo al movimento. Non è tantissimo, ma neppure poco.

Diciamo che fa capire quanta distanza separi la piazza bolognese che un capo carismatico traversava su un gommone sorretto da braccia devote e un rito meno eccentrico dove voci delegate si sono misurate attorno al rilancio di una forza coinvolta con altre nel governo del Paese.

Perché la prima differenza sta qui. Davanti a San Petronio, era inizio settembre del 2007, cinquantamila entusiasti riversavano una rabbia benedetta dal loro Savonarola. Dall’uomo – il comico, l’artista, l’intellettuale sedotto dalle suggestioni di un visionario di talento – la folla non invocava soluzioni, ma denuncia. Dura, ruvida, senza sconti. A quella figura ibrida chiedevano un atto di ribellione, qualcosa di complesso a volerne analizzare cause e concause, molto più sintetico nell’invettiva destinata a imporsi.

Tredici anni dopo, e dopo tre elezioni politiche, la conquista di Roma e Torino, il governo con la destra, l’estate al Papeete, la santificazione e destituzione del leader, gli eredi di quella piazza hanno dato vita a un evento tra i più classici della tradizione. Li hanno battezzati Stati generali, ora li si chiami come si vuole, al netto della scenografia ciò che si è consumato somiglia parecchio ai riti tipici un tempo dei congressi di partito.

Dovremmo giudicarlo un male? Un bene? Non ho dubbi, tra le due definizioni scelgo la seconda per ragioni scontate, meno una forse. Del weekend pentastellato credo convenga valorizzare quanto non c’era più di quanto si è visto.

Può sembrare un paradosso, invece una spiegazione ce l’ha e si può riassumere così, che dai due giorni nasca un direttorio a cinque, sette o sedici, che si arrivi a nominare un nuovo capo o si rimetta in sella quello di prima, che si scelga di abbandonare la regola del doppio mandato o la si mantenga – sto elencando alcuni temi oggetto del confronto – tutto sommato sono aspetti prevalentemente interni. O meglio, se dovessi esprimere un’opinione non richiesta suggerirei di cassare la norma sui due e solo due margini di elezione. Non per preservare un ceto politico spesso inadeguato, anche oltre i 5 Stelle ovviamente, ma perché, scomodando la vecchia lezione di Weber e fatte le debite proporzioni non esiste che un chirurgo capace abbandoni la sala operatoria avendo esaurito il bonus e dunque riscoprire una competenza nell’azione legislativa e di governo dovrebbe segnare un punto a favore del nuovo, non apparire, come è stato, l’ancorarsi al peggio del passato.

Ma dicevo, cerchiamo il buono in quanto nel meeting grillino non si è visto e non si è sentito. Nel farlo gli esempi aiutano. Per dire, non si è sentito sostenere che «recenti studi hanno messo in luce collegamenti tra le vaccinazioni e alcune malattie specifiche quali la leucemia…malattie tumorali, autismo e allergie» o che «una vaccinazione di massa obbligatoria è un regalo alle multinazionali farmaceutiche ed è quanto di più lontano…da un approccio appropriato».

Né si è ascoltato l’ex e forse futuro capo politico dire che «delle altre forze politiche il Movimento 5 Stelle non si è mai fidato». Ancora, a nessuno è saltato in mente di rivendicare le misure più indecenti dei decreti “Sicurezza” né sono ricomparse scomuniche di un’Europa oppressiva delle libertà.

Per quanto attiene alle citazioni il debito è al lavoro di Federica Graziani e Luigi Manconi sulla blasfemia del populismo penale (Per il tuo bene ti mozzerò la testa. Contro il giustizialismo morale, Einaudi 2020). Ma è il messaggio di fondo che conta.

Chiamiamola maturazione oppure usiamo l’antica formula sulla costituzionalizzazione delle estreme, resta il fatto: una forza, movimento o qualunque cosa fosse, sorta su una matrice “rivoluzionaria” come tutte le aggregazioni fondate sul primato della legittimità sulla legalità, ha percorso un decennio e più transitando dalla piazza al parlamento e dall’opposizione al governo, il che è coinciso con una presa d’atto della complessità del mondo e dei processi che lo investono.

Tra sabato e domenica non aver più sentito una scansione banalizzata e banalizzante del discorso pubblico va letto per ciò che è, un risultato importante e destinato, si spera, ad aprire la nuova stagione di quel soggetto compreso senso e valore delle alleanze che sarà in grado di costruire e consolidare. Perché questo oggi è lo spartiacque vero e riguarda il senso della tragedia che investe persone malate, famiglie impoverite, una nazione segnata. Il punto è se a questa consapevolezza si reagisce con una iniziativa politica adeguata. Ma farlo implicherebbe anche lasciarsi alle spalle l’ambiguità per cui destra e sinistra pari sono e lavorare da ora perché la prova delle amministrative prossime, da Torino a Napoli passando per Milano e Roma, veda la maggioranza di governo più coesa e solidale di quanto non sia accaduto alle ultime regionali. Il che avrebbe anche il suo effetto sul rapporto da avere con le opposizioni nella convinzione che una vicenda così enorme chieda a tutti di ripensare non già un decalogo di impegni ma una missione all’altezza del passaggio che stiamo vivendo.

Il Pd per la sua parte lo ha detto e lo farà. Se questo balzo di qualità e coscienza dovesse compiersi, allora sì per la nostra democrazia acciaccata sarebbe un bel giorno.

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