Martedì mattina, al momento del voto alla Camera dei deputati sulla proroga dello stato di emergenza, le opposizioni pur presenti in Aula non hanno votato ed è mancato il numero legale. La maggioranza ha giustificato l’accaduto dicendo che molti loro deputati erano in quarantena fiduciaria. La seduta è stata aggiornata di un’ora, ma il numero legale è mancato per la seconda volta. Cosa grave di per sé, che ripropone un problema ben più grande: quello di un Parlamento non attrezzato a funzionare da remoto. Non una gran cosa, in tempi di pandemia. Oggi è mancato il numero legale, e se domani i colleghi in quarantena fossero tanti da non esserci più i numeri per sostenere fisicamente in aula una maggioranza? Che si fa: paralizziamo tutto?

Facciamo un salto nel passato. Inizio agosto 2019, passiamo un’ora alla Camera a discutere e approvare un ordine del giorno per far sì che le deputate mamme possano allattare in aula. Un diritto delle donne e dei bambini, e anche un piccolo segnale che il parlamento dà sulla parità di genere. Molti colleghi sono contrari, altri sostengono che l’emiciclo di Montecitorio, un palazzo edificato oltre un secolo fa – quando le donne ancora non votavano e non potevano tantomeno essere elette – non sia un luogo particolarmente salubre per portarci un neonato. Tanti metri cubi, con un lucernaio stile liberty grande come quattro campi da basket, ma nessuna finestra. Decidiamo alla fine che la cosa migliore sia garantire alle colleghe una sala “in prossimità” dell’Aula per poter allattare in un luogo più sano. Se ricordo oggi questo episodio è perché una parte importante del dibattito parlamentare in quell’occasione si concentrò sulla possibilità di esercitare il diritto di voto da quella sala attigua. Molti mugugnarono. Non era tollerabile un precedente così: consentire il voto dei parlamentari fuori dall’aula, che barbarie! Insistemmo e passò che le deputate da quella sala non solo assistessero ai lavori ma potessero esercitare tutte le loro prerogative parlamentari.

Poi è arrivato il Covid-19. La Camera dei deputati viene presa in contropiede. Per affrontare i mesi del lockdown si adottano misure significative: contingentamento dei parlamentari a cui è concesso di venire di persona, rimettendo ai gruppi parlamentari di decidere chi sì e chi no; fino all’allestimento, per consentire il distanziamento fisico, di postazioni anche nel Transatlantico e nelle tribune. Dove da mesi, adesso, siedono e votano decine di colleghi, facendo sembrare repentinamente ridicolo l’argomento di chi riteneva che non si potesse far votare una puerpera in una sala “in prossimità”.

In quei mesi, con decine di colleghe e colleghi di quasi tutte le forze politiche – a partire da quelli iscritti a Movimenta: Rossella Muroni, Paolo Lattanzio, Lia Quartapelle, Erasmo Palazzotto – abbiamo capitanato più di una richiesta privata e di una petizione pubblica per chiedere che il parlamento si attrezzasse, rivedendo il regolamento interno e facendo qualsiasi cosa servisse per diventare un’istituzione moderna. Questo accadeva mentre il governo varava una norma per consentire ai comuni italiani di riunire giunte e Consigli comunali da remoto, e il parlamento europeo deliberava di lavorare a distanza, con deputati collegati da tutto il continente. Noi però no. Noi non potevano votare, e neppure fare dibattiti da casa.

Le votazioni alla Camera sono palesi 99 volte su 100, non si pongono le criticità del voto segreto. Eppure niente. Già a fine marzo chiedemmo con 70 deputati di dotarci di un parlamento agile, che potesse essere a servizio dei cittadini h24 invece che a scartamento ridotto per poche ore a settimana. Muro di gomma. Tornammo alla carica un mese dopo con un secondo appello pubblico. Niente. Rimbalzati dalla presidenza della Camera con il riassunto di un lungo elenco di misure prese, tutte come se fossimo ai tempi dell’influenza spagnola del 1919 e non nel mondo in cui online ci troviamo già per tutte le altre riunioni, paghiamo le tasse e gli affitti, facciamo la spesa.

Adesso che il numero dei contagi risale e che “tutto si rimette in discussione ogni giorno”, come il ministro della Salute Roberto Speranza ha dichiarato stamattina intervenendo alla Camera – poco prima che mancasse il numero legale – adesso che serve tornare ad alzare il livello di guardia e precauzione, il Parlamento si ritrova impreparato come se fossimo all’inizio della pandemia.

Ci era già stato comunicato il ripristino di un rigido contingentamento per i lavori delle Commissioni. Tradotto: alla seduta di oggi in Commissione cultura (faccio l’esempio della mia), solo la metà dei deputati sono ammessi; gli altri restano a casa, senza poter né intervenire né votare. Nei giorni scorsi, il collega Stefano Ceccanti ha tempestivamente riproposto una modifica del regolamento per consentire il voto telematico. Questa modifica va sostenuta con forza. Va chiesto un ripensamento anche più ampio di come il nostro parlamento lavora nel 2020. Non abbiamo bisogno di agitare fantasmi, ma di diventare una democrazia veloce e agile, capace non solo di gestire le emergenze-che-finiscono, ma di anticipare le grandi trasformazioni, che poi sono quelle emergenze che perdurano, che cambiano comportamenti e rapporti all’interno della società, che ci costringono a rivedere il concetto stesso di “normalità”. Siamo nel bel mezzo di tutto questo. Le nuove tecnologie possono intaccare la democrazia, ma possono pure essere uno strumento potente per garantirla e rafforzarla. Sta a noi anticipare, non inseguire. Sta a noi decidere se affidarci alle nostre paure o costruire sulle nostre capacità.

© Riproduzione riservata