Partiamo dal clima. Nel prossimo referendum del 20 e 21 settembre non vive la stessa carica polemica di altri momenti, da ultimo lo scontro sulla riforma Renzi del 2016. Può sembrare una nota di colore, non lo è. 

Sarà che personalità di prestigio hanno assunto posizioni diverse, penso a due presidenti emeriti della Consulta, Valerio Onida e Giuseppe Tesauro, collocati il primo a favore del taglio, il secondo contro. Sarà che esponenti del campo progressista argomentano con rigore convinzioni spesso divergenti. Resta che a differenza di quattro anni fa o della riforma del centrodestra, anch’essa bocciata nelle urne nel 2006, questa volta è dato misurarsi col merito fuori da una chiave esasperata di benefici e rischi. Detto ciò, le ragioni del No paiono a me più che solide per la logica che le sorregge. Proverò a riassumerle per punti.

Efficienza e risparmi?

Nella relazione di accompagnamento alla riforma erano ben chiari i due obiettivi di fondo: aumentare efficienza e produttività delle camere e razionalizzare la spesa pubblica. Tradotto, rendere più spedita l’azione legislativa e tagliare i costi della politica. Anche ammessa la buona fede dei proponenti, dei due obiettivi ne è rimasto in piedi uno solamente, il taglio dei costi. Non per caso gli esponenti Cinque stelle quel punto rivendicano con vigore consapevoli della sua popolarità.

Quanto all’idea che la cesoia destinata a ridurre la rappresentanza di un terzo possa condurre a maggiore speditezza nel lavoro di aule e commissioni, non esiste prova o tantomeno garanzia che così debba essere. Anzi, a osservare alcune conseguenze sorge il timore di un possibile peggioramento della condizione attuale.

Le cause sono note: 200 senatori avrebbero parecchie difficoltà a coprire l’identica mole di impegni distribuiti ora tra i 315 membri della seconda camera. E qui si colloca l’argomento più incisivo della critica al modo in cui si è proceduto, la scelta di svincolare la riduzione dei parlamentari da una correzione del bicameralismo attuale.

Sostengono i sostenitori del Sì che di un taglio di deputati e senatori si discute da anni. Vero. Potrei anch’io sommare rimandi e citazioni, da Giuseppe Dossetti a Costantino Mortati passando per Nilde Jotti. Ma quelle figure associavano la riduzione a una revisione dei compiti da assegnare a ciascuno dei due rami e si spingevano persino, fu il caso di Umberto Terracini, a ipotizzare la soppressione di una delle camere, nello specifico il Senato.

Il punto è che mai nel corso dei decenni la revisione dei membri del parlamento si è risolta unicamente nel taglio del numero come accadrebbe nel caso la riforma fosse approvata alle condizioni di ora.

Spiegano i “veri riformisti” che bisogna contentarsi del primo passo sul sentiero giusto nella convinzione che gli aggiustamenti seguiranno. Tesi legittima in via di principio, lascia però irrisolto più di un interrogativo in via di fatto. Quali certezze possiamo avere che quanto non si è fatto prima si concretizzi speditamente nel dopo? Al fondo non parliamo di dettagli, ma di aspetti costituzionali, normativi, regolamentari che concorrono al corretto funzionamento dell’istituto parlamentare.

Terza obiezione, l’invito alla coerenza. Forze politiche che hanno votato a favore della riforma in tutti o anche solo nell’ultimo passaggio parlamentare come possono mutare indirizzo nel referendum confermativo? E qui un punto va chiarito.

L’accordo di maggioranza tradito

Un anno fa, alla nascita del governo giallo-rosso, anche chi come il Pd aveva votato contro nei primi tre passaggi ha acconsentito a varare il taglio ottenendo in cambio garanzie di riequilibrio del sistema. Nello specifico – cito i titoli – si trattava di altre due riforme costituzionali (sulla soglia d’età dell’elettorato attivo e passivo per il Senato, sulla modifica della base regionale per la sua elezione e sulla riduzione dei delegati regionali nella platea dei grandi elettori per la scelta del capo dello Stato), a ciò si aggiungeva la modifica dei regolamenti parlamentari e una diversa legge elettorale.

A poche settimane dal referendum non uno dei cinque traguardi è stato tagliato e dunque le ragioni di responsabilità che un anno fa hanno indotto il Pd a correggere la sua contrarietà escono per lo meno indebolite.

Comunque, al di là del giudizio sul mancato rispetto degli impegni, la domanda è se sia coerente dare il via libera a un taglio della rappresentanza di quelle dimensioni confidando solo nella disponibilità verbale a occuparsi ex post di un equilibrio che si sarebbe dovuto precisare ex ante. A questo punto sembra legittimo che i singoli possano esprimersi in tutta coscienza.

Assistiamo a un rimpallo di percentuali sulla proporzione della rappresentanza tra elettori ed eletti nel nostro e in altri paesi. In questo caso conviene ricorrere agli uffici studi di Camera e Senato. Lasciando perdere la vetta della classifica dove Malta, Lussemburgo, Cipro spiccano per un rapporto fuori misura (ovviamente nel loro caso contano le ridotte dimensioni geografiche), le percentuali più basse riguardano alcune grandi nazioni (noi, Germania, Francia, Spagna). Attualmente occupiamo il quintultimo posto con un rapporto tra numero di deputati per centomila abitanti pari all’1,0. Dopo la riforma scaleremmo in fondo agli altri con uno 0,7 a fronte dello 0,8 della Spagna e dello 0,9 di francesi e tedeschi.

Ma lasciamo queste cifre ai margini, il tema non è in quella differenza quanto nel rischio di vedere penalizzata la rappresentanza dei territori più piccoli. Si stima che in alcune regioni (Abruzzo, Umbria, Marche, Basilicata, Liguria) la soglia per l’accesso al futuro Senato potrebbe divenire del 20 per cento con una compressione di quel pluralismo che della corretta rappresentanza è in certo modo l’anima gemella.

Sommiamo il fatto che in assenza di una nuova legge elettorale non si avrebbe alcuna ricucitura del legame tra gli elettori e i loro rappresentanti, anzi, e il quadro d’insieme appare più chiaro.

Infine, perché tanto insistere sul diritto-dovere a una rappresentanza non sacrificata dentro il parlamento? Per rispondere conviene risalire alla radice della questione. Per un paio di decenni, gli ultimi, la discussione sulle riforme istituzionali ha scelto come mantra la governabilità.

Ogni cambiamento, organico o parziale, muoveva dal caposaldo di una maggiore efficacia e rapidità delle decisioni. Il capitolo della rappresentanza è così scivolato sullo sfondo, quasi residuo di una stagione in urto col bisogno di maggiore agilità e iniziativa del potere esecutivo.

Comporre i conflitti

Il punto è che la nostra Costituzione non mitizza un popolo generico. Spiegava anni fa Gaetano Azzariti come il cuore della nostra democrazia “riguarda il modo in cui si forma la volontà popolare e le modalità attraverso cui si traduce in volontà politica”. In altre parole, la rappresentanza copre esattamente questa funzione: comporre i conflitti, espressione della diversità di interessi e bisogni, non per annullarli, ma per consentire la loro coesistenza in una società plurale. Se di questo si tratta, limitare la pluralità (o il pluralismo) dentro l’ambito della rappresentanza, in primis del parlamento, equivale a tacitare quella stessa pluralità nel corpo vivo della società, con l’effetto di impoverire perimetro e qualità di una democrazia.

Insomma, alle Costituzioni e alla rappresentanza spetta anche il compito di far convivere le diversità. Davvero si può ritenere una buona idea comprimere una componente così essenziale per issare il vessillo di un risparmio (quanto mai contenuto) dei costi?

Recitano gli ultimi sondaggi che non vi sarebbe partita, tanto e tale è l’impeto verso il taglio di chi dichiara che andrà a votare. Non so come stiano le cose, vedremo.

So però che vi sono posizioni pubbliche da assumere in ragione di un argine da porre a spinte che, persino al di là di chi le innesca, possono sfuggire di mano.

In questo senso, una simbologia antipolitica e antiparlamentare questo referendum purtroppo la contiene e allora usare i prossimi giorni per dire che il rammendo è arte distinta dall’uso delle forbici (vale per le periferie care a Renzo Piano e per la democrazia di tutti noi) penso sia un piccolo obbligo da rispettare.

Poi, come giusto, deciderà il popolo.

Ma quanto sarebbe saggio riscoprire anche di quel concetto il giusto valore che, sia detto per inciso, mai è stato e mai potrà farsi sinonimo di populismo.

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