Joe Biden ha firmato la più grande espansione dell’assistenza governativa dagli anni Sessanta». Così scriveva Robert Reich sul Guardian di domenica 14 marzo, sottolineando la svolta introdotta dal nuovo presidente nella politica americana rispetto agli ultimi decenni. Il punto di vista è particolarmente prezioso, poiché Reich è stato segretario del Lavoro nell’amministrazione Clinton dal 1993 al 1997 e si è opposto con vigore alle proposte di riduzione del welfare provenienti dai repubblicani e accolte dai democratici in quegli anni.

Lo stesso Clinton, ricorda Reich, venticinque anni fa ha affermato che «the era of big government is over». Eppure, il “centrista” Biden, che all’epoca ha votato le proposte di Clinton, ora inverte la rotta e investe nelle politiche sociali, rivendicando il ruolo interventista del governo. Cosa è successo? È cambiato il mondo: il Covid, sottolinea Reich, ha mostrato la fragilità dei redditi della classe media riproponendo l’importanza della protezione sociale garantita dal welfare anche per quei settori della società attratti negli scorsi decenni dal richiamo della “deregulation” proposta dai repubblicani.

Sarebbe opportuno che queste riflessioni contribuissero al dibattito in corso nelle forze del centrosinistra italiano, in cui termini quali “riformismo” rischiano di rimanere dei richiami retorici sprovvisti di legami con i processi empirici in corso. E dove un altro esponente “centrista”, Enrico Letta, è chiamato al compito di favorire la rigenerazione del Partito democratico. Il compito è molto impegnativo, da far tremare i polsi: le dimissioni di Zingaretti segnano una cesura dopo quattordici anni di tribolazioni che si concludono con la fine di un’illusione – e il rischio dell’estinzione (come non vedere il recente sondaggio Swg secondo il quale, con un M5s con Conte leader, il Pd sarebbe sotto il 15 per cento? Nel 2008, le elezioni del “battesimo”, i democratici erano al 33,2 per cento). Perché vi possa essere una reale possibilità che il centro-sinistra possa avere (un giorno non così vicino) chance di governare, è indispensabile che vi siano due cambiamenti radicali: uno di sostanza, uno di forma.

Una voce flebile

Circa la sostanza: in questi anni la voce del Pd è stata troppo flebile su temi definitori della sinistra (e, per la verità, anche di un centro-sinistra che possa realmente essere competitivo) quali l’inclusione sociale, la difesa del lavoro, delle lavoratrici e dei lavoratori, e la tutela dell’ambiente. Da anni il Pd è diventato principalmente il partito dell’establishment, soprattutto economico, con una particolare accentuazione a partire dal governo Renzi – che ha causato danni ingenti alla credibilità del Pd come partito saldamente ancorato a principi e valori della sinistra. Ma il problema non è Renzi: come ben sottolineato da Cuperlo sulle pagine di questo giornale nei giorni scorsi, il Pd non ha mai trovato una vera identità che si potesse facilmente (e immediatamente) collegare al contrasto alle disuguaglianze, alla tutela del mondo del lavoro o alla risoluta e inequivocabile presa di posizione sull’ambiente come bene comune da tutelare.

Dopo il “sacrificio” determinato dal sostegno al governo Monti, il Pd è diventato – spiace dirlo in modo così brutale – un terreno di conquista in cui, a eccezione di poche voci fuori dal coro, a tutto si è pensato tranne che a una strategia politica. Il grido d’allarme di Zingaretti relativo a un partito in cui si parla solo di “poltrone” non pare essere il grido di dolore di un leader accoltellato alle spalle, ma la drammatica certificazione dell’abbandono di un modo di fare politica che era iscritto nelle pagine migliori della storia della Dc e del Pci.

Raccogliere la sfida

Si potrebbe obiettare che anche Zingaretti (e chi l’ha sostenuto) poteva fare di più. Sarebbe, ormai, inutile e – in parte – ingeneroso. Ciò che serve perché il Pd non si estingua è raccogliere la sfida lanciata da un’autorevole voce interna al partito che ha fatto di tutto per cambiare rotta (Cuperlo) e “aprire” il Pd, insieme al mondo diffuso (e concreto) dell’associazionismo, dei rappresentanti dei lavoratori (sarà la volta buona che gli iscritti alla Cgil non voteranno più Lega?) e dei rappresentanti di quel mondo dell’impresa (cooperativa e non) che crede che la responsabilità sociale faccia rima con consolidamento aziendale. Insomma, riprendere a interloquire e farsi “aggregatore” di interessi incentrati sui valori dell’inclusione sociale, del lavoro dignitoso e di qualità e della tutela dell’ambiente. Non solo a parole, ma con i fatti.

Perché possa realizzarsi tale esito virtuoso, è necessario però che cambi anche la forma. Oggi un partito che vuole essere riferimento della sinistra deve essere aperto alle differenti forme di partecipazione delle persone e dotato di un profilo valoriale chiaro, sul quale possano poggiare quei progetti da proporre nell’azione politica. Ad esempio, in attesa che una legge venga approvata sul divieto di fare conferenze a pagamento per i rappresentanti in carica del parlamento, il Pd potrebbe farsi portavoce di una seria legge sul conflitto di interessi. Una nuova forma significa aprire laboratori che si dimostrino accoglienti per le tante realtà che in questi anni hanno avvertito il Pd sempre più come una “società scalabile” dal ras di turno, ma che non hanno ancora perso la fiducia in un centrosinistra all’altezza dei tempi, dalle sardine alle molte realtà civiche disseminate sul territorio. Per salvare sé stesso (e la sinistra) il Pd deve cambiare. E deve farlo oggi. Non domani.

 

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