In questo momento l’Inpgi sta pagando più di 2.600 trattamenti di solidarietà e di cassa integrazione, oltre 500 sussidi di disoccupazione e nei prossimi mesi dovrà fare fronte all’uscita per prepensionamento di circa 200 giornalisti. Ogni anno, ormai da un decennio, circa 7mila giornalisti sui 15mila che versano regolarmente i contributi, accedono agli ammortizzatori sociali. La differenza rispetto a quello che accade per tutti gli altri settori industriali è che il costo di questi ammortizzatori sociali è interamente a carico delle casse dell’Inpgi, che è dal 1995 una cassa di previdenza privata interamente sostitutiva dell’Inps per quanto riguarda la previdenza e l’assistenza dei giornalisti iscritti all’ordine: negli ultimi dieci anni quindi lo stato ha risparmiato 500 milioni pagati solo grazie ai contributi e al rendimento del patrimonio della cassa.

Se si vuole parlare del disavanzo dell’Inpgi e delle soluzioni possibili non si può che partire da qui. Il deficit di bilancio dell’istituto non viene da cattiva gestione o da faraonici privilegi che non esistono più dalla notte dei tempi. Viene dalla crisi di un settore industriale, l’editoria, travolto dagli effetti di una digitalizzazione selvaggia e non governata e su cui la politica finora è intervenuta poco e male. Da oltre dieci anni i governi, di qualunque colore, sono intervenuti solo per aiutare gli editori a ottenere stati di crisi, reali o “prospettici”, come previsto dalla legge 416, una legge dello stato, non un regolamento dell’Inpgi. Editori che, in qualche caso, hanno ottenuto lo stato di crisi nonostante bilanci in utile, dividendi agli azionisti e superbonus ai manager.

E tutto ciò, paradossalmente, non ha risolto nessuno dei problemi strutturali del settore. Il costo della transizione digitale, finora, è stato sopportato prevalentemente dai giornalisti: a tutti piace leggere le ultime notizie gratis sul telefonino e a nessuno interessa che questo comporti perdita di posti di lavoro, precarizzazione, conflitti generazionali nelle redazioni e una generale perdita di qualità dell’informazione.

Non si può affrontare il problema della cassa di previdenza, che è a valle di questo sistema, senza contemporaneamente affrontare il tema del sistema editoriale nel suo complesso, delle figure professionali nuove che emergono, dei modelli produttivi, di distribuzione, di fruizione del “prodotto informazione”. Questo giornale, nell’edizione di lunedì 18 ottobre, ha meritoriamente raccontato come i giornali cerchino di incrementare i ricavi trasformandosi in piattaforme di vendita. E questo è solo uno degli esempi di cosa sta succedendo nelle redazioni e che chiunque faccia questo mestiere sperimenta da anni sulla propria pelle.

Da queste riflessioni è nata, non in extremis ma più di quattro anni fa, la proposta di allargamento della platea di contribuenti all’Inpgi, cioè la possibilità di iscrivere all’Istituto anche soggetti non iscritti all’Ordine dei giornalisti ma che svolgono attività contigue a quella giornalistica: se è vero che dal 1995, anno della privatizzazione delle casse, il mondo del lavoro è profondamente cambiato, come fa una cassa di previdenza che vuole restare autonoma ad intercettare questi cambiamenti e a rappresentare e tutelare platee di lavoratori che si trasformano e si evolvono?

La risposta più facile è quella meno convincente e più costosa per le casse dello stato: l’ente non ce la fa, non incassa abbastanza contributi per pagare le pensioni e di conseguenza tutte le prestazioni passano a carico del bilancio pubblico, percorso previsto dal decreto 509 e garantito dall’articolo 38 della Costituzione.

Riformare il settore

La risposta più complicata ma al tempo stesso più efficace se si vuole cominciare a parlare di riforma dell’editoria è quella di considerare la filiera industriale nel suo insieme e offrire inclusione, rappresentanza previdenziale e tutele, non privilegi, a tutti i lavoratori coinvolti nel processo di ideazione, elaborazione e produzione dei nuovi prodotti editoriali.

Questa è la proposta dell’Inpgi, presentata e discussa ampiamente dalla commissione istituita presso la Presidenza del Consiglio che l’ha valutata con grande attenzione. Non siamo noi a chiedere l’aiuto dello stato per «pagare le pensioni e i privilegi dei giornalisti», cioè quello che si paventa nell’articolo pubblicato nell’edizione di Domani di martedì 19 ottobre. Stiamo chiedendo esattamente il contrario: vogliamo continuare a pagare noi le pensioni e gli ammortizzatori sociali dei giornalisti e di tutti i lavoratori della filiera. Stiamo chiedendo alla politica uno sforzo di visione perché pensiamo che l’Inpgi, ancora autonomo e più largo, possa essere un alleato fondamentale per la rinascita del settore.

Se la politica e gli apparati tecnici dello stato, in nome dell’universalismo delle prestazioni, non avranno il coraggio di percorrere questa strada appesantiranno i conti pubblici e perderanno l’ennesima occasione per riformare un settore industriale che sta morendo.

 

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