Il discorso di Mario Draghi in parlamento ha colpito per serietà, rigore e anche per l’assenza di reticenza sulla visione del futuro e del presente del paese. Ma non c’ è dubbio che ciò che ha dato tono alle parole che abbiamo ascoltato è stata la credibilità di chi le ha pronunciate. E non solo tono, ma anche prospettiva e profondità.
Tra le le riforme necessarie indicate dal professor Draghi c’è ne è una che ricorre come capitolo mai risolto della modernizzazione del paese: la riforma della Pubblica amministrazione. Nel ruolo di ministro in quel settore torna Renato Brunetta. 10 anni fa si distinse per non aver compreso che le riforme non si fanno contro chi lavora ma con chi lavora. Il che non e’ un gioco di parole, ma una scelta di approccio. Che la gravita della situazione del paese nella pandemia dovrebbe consigliare ancora di più.

Il problema

Il giudizio negativo sulla efficacia della Pubblica amministrazione è entrato nel senso comune e si è esteso ai diritti da esercitare e ai doveri da espletare attraverso di essa.
D’altra parte la Pubblica amministrazione è la faccia dello stato e quindi la valutazione sulla sua qualità trascina con sè quella sulla qualità delle politiche pubbliche.
Per questo la sua riforma è una questione democratica. Per questo va realizzata con responsabilità bipartisan. Se lo Stato non funziona non funziona il paese, chiunque lo governi. E il funzionamento della nostra Pubblica amministrazione, nonostante stagioni importanti di cambiamento, continua ad essere uno dei freni principali alla sua crescita.
Se in tempo pre-Covid il numero di adempimenti per aprire un esercizio commerciale era abnorme rispetto ad altri paesi, nel post- Covid i tempi e le procedure delle erogazionI delle misure di sostegno a famiglie, imprese e lavoratori sono stati una ulteriore prova dell’urgenza di semplificare e riformare la Pubblica amministrazione.

Al netto del pessimismo contenuto nella recente ricerca della Camera di Commercio di Roma secondo la quale è difficimente scalfibile la farraginosità dell’impianto giuridico-avvocatesco del processo amministrativo. Non a caso si parla dell’argomento in una ricerca sulla Roma del 2030. Il futuro di Roma è fortemente legato alla capacità di modernizzazione della sua macchina amministrativa e alle qualità politico-amministrative di chi la guiderà.

La digitalizzazione necessaria

Va detto subito che la digitalizzazione non è la panacea di tutti i mali, ma la condizione necessaria. Infatti non esiste automatismo tra efficacia dei servizi pubblici e digitalizzazione perché alla loro qualità concorrono le caratteristiche del processo organizzativo, le capacità della dirigenza, la formazione e la motivazione dei lavoratori pubblici.
Digitalizzare servizi non “utili” non cambia la vita alle persone che sarebbe invece molto semplificata se le amministrazioni dialogassero tra di loro scambiandosi informazioni di cui sono già in possesso. Alfonso Fuggetta, studioso di innovazione della Pubblica amministrazione, ha da tempo suggerito che le criticità maggiori risiedono nella inadeguatezza dei “back-end”, cioè nella struttura e nella organizzazione dei processi e dei sistemi informatici di supporto. È questo snodo che impedisce di creare servizi più evoluti e di eliminare quelli che sono in realtà gli adempimenti che l’amministrazione ribalta sui cittadini.

Utenti e dipendenti

Naturalmente a proposito di digitalizzazione della P.a. occorrerà fare i conti con l’analfabetismo digitale e con l’esclusione di parte del paese dalla connessione digitale. Non come alibi per ritardare i cambiamenti, ma come motivazione per accelerare gli investimenti in entrambe le direzioni, grazie alle risorse del Recovery plan. D’altra parte anche l’età media dei più di 3 milioni di lavoratrici e lavoratori pubblici supera i 50 anni, come esito dei ripetuti blocchi del turn over, con ricadute sulle loro competenze informatiche.
Pietro Ichino aveva commentato con lo stile provocatorio che conosciamo, il prolungamento dello Smart working per il 50 per cento dei lavoratori del pubblico impiego. Per gli effetti negativi a suo dire sulla qualità e quantità del lavoro.Tema sicuramente da approfondire perché non c‘e’ dubbio che la scelta dello Smart working, fuori dal lockdown, deve essere correlata a cambiamenti organizzativi, a dotazioni informatiche adeguate, a un ruolo appropriato della dirigenza. Se si trattasse semplicemente di compiti esecutivi svolti da remoto piuttosto che lavoro per obiettivi, il problema non sarebbe la modalità, ma l’impostazione e il ruolo della dirigenza. Senza dimenticare,a proposito di dirigenza, necessità di trasparenza negli accessi e nelle carriere e utilità della autonomia dalla politica. A proposito di qualità, i vertici più importanti nella Pubblica amministrazione sono ancora occupati prevalentemente da uomini. E non è un bene.

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