La presentazione in consiglio dei ministri della bozza del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza ha sbloccato la discussione pubblica sul Next Generation EU anche in Italia. Era questo la speranza del Forum Disuguaglianze e diversità quando ha messo in campo i sedici giorni di dibattiti e proposte, dal 30 novembre al 15 dicembre, di “OpenForumDD”, con l’intento di mettere a fuoco i nodi principali e le priorità che il Piano dovrebbe affrontare.

Nodi e priorità che stanno dentro un campo i cui assi cartesiani l’Europa ha già disegnato: i contenuti e la governance. E quando parliamo di contenuti non dobbiamo pensare tanto ai progetti, quanto piuttosto a obiettivi, strategie e assi principali, di cui l’Europa già disegna i confini e la direzione, dettando le tre condizioni obbligatorie: 37 per cento di green, 20 per cento per il digitale,  rafforzamento della coesione sociale.

Una “rivoluzione copernicana” nel ruolo dell’Europa, che si fa promotrice di innovazione sociale e culturale accettando le sfide dei prossimi anni alla luce delle grandi crisi che attraversano il mondo contemporaneo: la crisi sociale, la crisi ecologica, la crisi della dimensione pubblica della conoscenza. Da qui è partita la discussione nella settima giornata della cavalcata del Forum DD dedicata a “La crisi ecologica: realizzare la transizione dal punto di vista dei più vulnerabili”. Con una consapevolezza. Il Covid-19 non ha solo accentuato drammaticamente le fragilità ed i fattori di crisi dell’attuale modello di globalizzazione, ridando peso e ruolo all’investimento pubblico per garantire benessere e sicurezza ai cittadini. Ma, soprattutto, ha chiarito che la sfida oggi è trasformare la straordinarietà in ordinarietà, ovvero trasformare gli investimenti che si metteranno in campo nei prossimi anni in un nuovo modello di produzione e di consumo, in un diverso sviluppo delle città e di uso dei territori.

Sta qui il nodo della governance e il limite della proposta del premier di una tecnostruttura dedicata, fuori dal funzionamento della Pubblica Amministrazione, perché legittima la straordinarietà, piuttosto che rinnovare e consolidare la PA con un rapido innesto di competenze adeguate, non limitate solo a quelle giuridico-amministrative.

Dalla discussione avviata dal Forum DD, è apparso chiaro quanto sia indispensabile oggi, per dare stabilità alle innovazioni, assumere il punto di vista dei più vulnerabili, per garantire una risposta adeguata ai bisogni delle persone.

Un contributo importante alla messa a fuoco dei percorsi viene da chi già oggi sta in campo e produce esperienze innovative. Così le comunità energetiche nelle periferie che si presentano come una risposta alla povertà energetica, come il superbonus del 110 per cento, se adeguatamente gestito a favore delle aree più fragile, socialmente e culturalmente, del paese. O lo sviluppo della green economy che già oggi presenta condizioni di stabilità lavorativa, di attenzione alle competenze professionali, di spinta alla mobilità sociale, dimostrando che la transizione verde fa rima con politiche attive del lavoro. O chi, da imprenditore, ha investito in ricerca di nuovi materiali, contribuendo alla mitigazione del cambiamento climatico per una via diversa da quella energetica, e facendo emerge l’importanza, per i produttori, della qualità del territorio in cui operano. O, ancora, chi in agricoltura sta aprendo nuove strade nel recupero di aree abbandonate, contrastando il dissesto, e di attività tradizionali producendo qualità alimentare, e, ancora, nella riduzione di emissioni climalteranti. Oppure investe in innovazione tecnologica che consolida la multifunzionalità dell’azienda agricola, incrementando la conservazione della biodiversità. O, infine, la possibilità di avviare cantieri, ma non “a prescindere”, non a qualunque costo e per ogni tipo di cantiere; il paese ha bisogno di manutenzione, recupero, consolidamento, riqualificazione e rigenerazione, e questo si fa sui territori, con strategie locali condivise con i cittadini.

Il modello “Ponte sullo stretto” non funziona, non produce alcuna capacità di resilienza, men che meno “sistemica”, è spreco e ulteriore indebolimento del territorio. In una fase di passaggio dalla straordinarietà all’ordinarietà il territorio diventa il “contesto abilitante” in cui dare gambe al cambiamento, concrete ed immediatamente operative.

Ma la sfida non è solo politica, sui tempi brevi, implica anche un cambiamento culturale, di visione, che attraversa diversi piani. A cominciare dal riordino delle risorse pubbliche, dove negli ultimi anni si è perso il senso educativo ed il valore culturale che anche le tasse possono giocare, e dalle semplificazioni burocratiche che liberino energie dentro una visione di sviluppo del paese e non, anche qui, “a prescindere”.

E questo è il punto più caldo: che il 37 per cento risponda a criteri di giustizia sociale ed ambientale vuol dire ricostruire il senso di appartenenza del paese, dare consapevolezza sugli obiettivi di medio e lungo periodo, compattare la visione dell’interesse generale, e avviare la ripartenza dando speranza a tutti di un miglioramento per tutti. In questa prospettiva, certamente, gli ostacoli da superare sono tanti, dall’accompagnamento della così detta brown economy al coinvolgimento dei cittadini, attraverso le armi fondamentali della trasparenza e della partecipazione, alla valorizzazione del ruolo dei consumatori nei processi decisionali, al tenere insieme nella “giusta transizione” le trasformazioni nella cultura sociale, ambientale e industriale, all’inversione di tendenza sulle disuguaglianze di genere e generazionali.

Insomma il nodo principale è dire “che tipo di paese vogliamo” e come ci muoviamo per raggiungere l’obiettivo. Si chiama “lungimiranza”.

*Forum Diseguaglianze e Diversità, già Presidente di Legambiente

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