Era così l'adolescenza nella provincia italiana degli anni Sessanta e Settanta. La gerarchia nella tribù dei maschi era stabilita da due abilità meglio ancora se combinate nella stessa persona: la capacità di giocare al calcio e quella di sedurre le coetanee. Chi faceva gol sembrava avesse un diritto naturale al primo bacio. Una terza componente era la forza, proprio la forza fisica, che dava qualche vantaggio a chi non eccelleva nello sport ed era impacciato con l'altro sesso. I libri, quelli, venivano dopo. Essere bravi a scuola, il segno di una virilità dubbia, tanto da provocare persino l'espulsione dal branco. Era così allora, forse, pur in circostanze sociali molto mutate (i paragoni sono tutti zoppi), è per certi versi così ancora oggi. L'adolescenza è la più bugiarda delle stagioni perché la vita poi si diverte a sovvertirne i valori.

Per noi ragazzi della Valle Seriana, qualunque dimestichezza avessimo con  la palla, il sogno era quello che, in un torneo da oratorio, passasse un osservatore dell'Atalanta e ci notasse. A un paio successe e si tolsero dal gregge, diventarono appunto “egregi”, eccellenze. Intoccabili come divinità, irraggiungibili, proiettati in un altrove esotico. Bergamo era l'Africa, l'Atalanta era l'Africa.

L'Africa

Siccome è probabilmente vero che non si scrive se non di sè stessi, per le associazioni mentali spesso iperboliche e chiare solo a posteriori devo aver trovato qualche assonanza con il mio vissuto quando il direttore della prestigiosa rivista francese Poésie mi chiese di scrivere un racconto sul calcio africano da pubblicare su un numero speciale dedicato al Continente Nero. Arrivava, quella richiesta, a ridosso della pubblicazione in Francia del mio libro Le dernier pénalty (Seuil, Parigi 2016, poi uscito in Italia da Sellerio col titolo L'ultimo rigore di Faruk), un romanzo non fiction sull'implosione della Jugoslavia vista attraverso il prisma della dissoluzione della sua squadra nazionale. Il calcio, lo sport più in generale, erano e sono una mia passione personale che non avevo mai voluto mescolare con la mia passione professionale di giornalista: la politica estera. Ma nel caso dell'ultimo rigore di Faruk le due passioni si erano avvinte in un groviglio inestricabile. Faruk mi aveva chiamato così come ora mi chiamava l'Africa. E non era un caso. Definiamo caso ciò che non decifriamo quando non riusciamo a comporre la sequenza del razionale.

Un racconto

Anzitutto era necessario indagare il fenomeno attraverso la raccolta di informazioni, quanto a me più consono dato il mio lavoro abituale. Ho scoperto così, tra l'altro, l'esistenza a Parigi dell'associazione “Foot solidaire” che si occupa dei giovani calciatori africani e ha costruito un archivio con le testimonianze di ragazzi, truffati, abbandonati, bisognosi a qualunque titolo di aiuto. Dietro ai giocatori di colore osannati negli stadi, c’è la moltitudine di chi non ce l’ha fatta. Un gruppo eterogeneo composto da chi una chance l’ha avuta e sprecata per mancanza di doti, chi è stato complice di imbrogli burocratici (falsificazione dell’età o dei documenti del permesso di soggiorno), chi infine è stato truffato da falsi procuratori e poi abbandonato all’arrivo nel nostro continente. Mi sono concentrato soprattutto su questi ultimi, larga parte degli illusi, 15mila ogni anno secondo le stime di “Foot solidaire”. Ho letto centinaia dei loro racconti, spesso simili, alcuni originali. Come il ragazzo del Mali scaricato sul ciglio di una strada che ha maturato un tale odio verso il suo falso anfitrione da tornare in patria, imbracciare il fucile a fianco dei fondamentalisti per combattere i soldati francesi di stanza nella regione per l’operazione “Barkhane”.

Ho capito che il racconto breve consegnato a Poésie non era sufficiente a contenere l’enorme massa di materiale e suggestioni che avevo accumulato. Bisognava allargarsi al romanzo lungo. E così è stato.

Ciò che mi ha più impressionato è la monotona ripetitività dell’inganno. Funziona grosso modo così questa moderna tratta con un metaforico pallone che incatena il piede. Il finto procuratore europeo, spalleggiato da un complice locale, setaccia miserabili campi di periferia, individua i migliori perché la sua successiva offerta abbia un minimo di credibilità. Lusinga la famiglia con piccoli regali, millanta conoscenze nei club blasonati d’Europa, promette mirabolanti guadagni milionari, spiega che il prescelto non può fallire perché gli africani, forgiati dalle privazioni, hanno una fame di successo assente nei loro coetanei del primo mondo, rammolliti dal troppo benessere e dalla scarsa attitudine alla fatica. La trappola è scattata, la tagliola è l’idea inoculata del futuro radioso, della ricchezza prossima ventura. La richiesta che segue e che potrebbe insinuare il dubbio viene giudicata come il diaframma fastidioso che separa dalla fortuna: “Per avviare tutte le pratiche ci dovete ora, subito,  cinque-seimila euro”. Spiccioli o quasi per noi, somma enorme laggiù. C’è chi mette a disposizione tutti i guadagni di un’esistenza, chi si indebita, chi combina un matrimonio della figlia con un possidente. La cifra è piccola ma è grande come l’oceano la massa dei reclutabili. 

L’ex responsabile della cantera del Barcellona Josep Colomer, ad esempio, con il denaro munificamente messo a disposizione dal Qatar quantificabile in qualche centinaia di milioni di euro, è stato il protagonista della più estesa caccia al campione mai scatenata. Alla ricerca del “nuovo” Messi, coadiuvato da uno stuolo di collaboratori, ha visionato in dieci anni sei milioni di africani. Ogni stagione ne ha scelto 23 da spedire a Doha perché entrassero nell’Accademia “Aspire”, tutto spesato, stipendio garantito da subito ai genitori di 5mila euro al mese. Del nuovo Messi nessuna traccia, ma la semina capillare di una speranza dilagata.

Una ricognizione in Africa ha dato ulteriore corpo, colore e sostanza alla mia ricerca.

Si gioca a calcio sulle spiagge, nella jungla, nella savana, nelle baraccopoli scalcinate, nelle poche strade asfaltate, nei campi rossi e irregolari.

Le tv satellitari hanno diffuso le immagini di un Eldorado possibile, oltre il Mediterraneo. E la via più spiccia per conquistarlo è dare calci ad un pallone. E così ci cascano, uno, dieci, cento, mille, diecimila. Una catena difficile da spezzare perché basata sul sogno degli adolescenti: ed è il particolare che rende ancora più odiosa la nuova forma di schiavitù. Se ho scelto la via del romanzo di finzione, ma basato su un fenomeno reale, è perché una vicenda singola non avrebbe reso la complessità. E un’opera di fantasia può rendere il vero più vero. Nelle intenzioni il mio Amadou, nome del protagonista, senegalese, è la somma dei troppi come lui. Il libro ha un arco temporale che corre tra la vigilia del mondiale brasiliano, giugno 2014, e l’autunno del 2016. Un periodo cruciale della nostra storia recente. Come succede, volevo far attraversare al personaggio i mali della contemporaneità, indagare quel mondo laterale che ci scorre accanto nella nostra indifferenza, almeno fino a quando resta confinato nelle aree off limits dove lo stato, gli stati, hanno rinunciato a esercitare il proprio controllo, lasciando che siano grumi di anti-stato a imporre l’uso illegittimo della forza. Di più: della violenza brutale.

La tratta è particolarmente sviluppata nella vasta area della “francafrique”, l’Africa francofona, dove un neo-colonialismo ghiotto di risorse naturali esercita la sua influenza. Amadou sbarca ed è lasciato solo a Marsiglia, la città più osmotica tra le sponde del Mediterraneo, con le banlieue dove il “communitarismo” tribale è un dato consolidato. È il suo rifugio, la sua unica occasione di sopravvivenza dopo che si è infranta la prospettiva di giocare al calcio. Mi sono chiesto perché i ragazzi come lui non denunciano o non tornano da dove sono partiti. E la risposta è semplice. Per la vergogna dei truffati, per non ferire le aspettative dei genitori, per il senso di colpa di non aver fiutato l’inganno e, nel mio caso, per non rendere chiaro che il sacrificio della sorella di Amadou, andata in sposa controvoglia a un proprietario terriero per permettere la sua avventura, è stato vano. Si adattano a una vita scissa, quella che hanno e quella mirabolante che raccontano a casa. Amadou viene assoldato da una gang di spacciatori, ras di quartiere sempre in cerca di manovalanza. Ma almeno ha un tetto e i soldi in tasca. Resta ammantato di una certa purezza, non si può chiedere di essere eroe a un quattordicenne digiuno di esperienza e in condizione di necessità. C’è comunque un limite che l’istinto e l’educazione morale ricevuta lo obbligano a non oltrepassare. Succede quando in banlieue arriva un imam radicale e predica l’odio, teorizza il massacro e il martirio. Da quella periferia in subbuglio assiste in televisione alla carneficina di Charlie Hebdo, evita fuggendo il proselitismo di cui sarebbe bersaglio. Sembra trovare un po’ di pace a Nizza, presso un conterraneo emigrato di prima generazione, quella che ha condiviso i valori della “République”, ma è inseguito dagli effetti di uno scontro di civiltà ormai conclamato, il Bataclan, la Promenade des Anglais, fuscello in balìa del mare in tempesta della macro-storia che sta insanguinando le strade d’Europa.

È ostile per lui, clandestino, la Francia dei diritti. E corre verso l’Italia, la Roma della stazione Termini e dell’umanità che abita nel sottosuolo, degli orchi pedofili, degli scontri al coltello quando non alla pistola, a pochi passi dalle vestigia dell’Impero che fu, dalla Banca d’Italia e dai palazzi del potere. Ha le prime esperienze con una coetanea di periferia, l’unione di due solitudini, e non saprebbe se è amore, non ne conosce ancora l’alfabeto, ma è sesso in abbondanza. Fino a un epilogo tra Genova e Roma dove c’è un piccolo seppur importante riscatto.

In tutto il suo viaggio Amadou non ha mai rinunciato all’idea di diventare un calciatore ed è quello il propellente che gli fornisce l’energia per sopravviversi, sballottato dagli eventi ma mai domato. In fondo l’essenza del titolo del libro Non dire addio ai sogni, pubblicato ora nelle Strade Blu di Mondadori. Alla sua traiettoria fa da contrappunto quanto avviene in Senegal nella sua famiglia. La scalata del padre al benessere economico grazie ai soldi del genero, le inquietudini della madre rosa dal dubbio sulla sorte di un figlio andato troppo lontano oltre le sue scrutabili colonne d’Ercole. Soprattutto il destino di Aisha, la sorella, co-protagonista del romanzo. Voleva fare la stilista di moda (la moda per molte ragazze è la stessa fabbrica di illusioni del calcio per i ragazzi) si è trovata costretta a un matrimonio d’interesse e pure lei ha le sue catene da cui si vuole liberare. Paradigma di un’Africa che attraverso i canali satellitari ha scoperto esistenze così desiderabili. Troverà in Amadou una sponda a cui appoggiare un destino diverso da quello disegnato da una società che la vorrebbe ancella.

Dicevo all’inizio che i paragoni sono tutti zoppi. Eppure la mia Nembro, Valle Seriana, degli Anni Sessanta, ha qualcosa da spartire con il villaggio senegalese di Amadou, almeno per quanto riguarda l’aspirazione degli adolescenti alla gloria negli stadi del calcio. Sarà perché lo sport è meritocratico, non contempla raccomandazioni e assicura l’uguaglianza dei punti di partenza. Gioca chi è più bravo. Sarà perché promette una rapida scalata della piramide economica, se non di quella sociale. Sarà perché a tutti, piace ricevere l’applauso. Sono identiche, a ogni latitudine, le pulsioni dell’animo umano.

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