Il problema della rappresentanza in magistratura non riguarda i sistemi elettorali o le correnti degenerate, è una questione culturale e di democrazia.

Alle donne è stato vietato l’accesso alla magistratura fino al 1963, oggi sono il 53,8 per cento del corpo giudiziario ma solo il 20 per cento nel Consiglio superiore della magistratura, l’organo che decide sulla vita professionale dei magistrati e sulle nomine dei dirigenti degli uffici giudiziari. Nei decenni di funzionamento del Csm, le donne sono state il 5 per cento degli eletti.

Eppure non è stato questo a indurre il governo a proporre la modifica della legge elettorale del Csm: è servito un drammatico scandalo, che ha coinvolto come manovratori delle nomine solo uomini, a far vacillare la credibilità della magistratura e a porre il tema della qualità della rappresentanza.

Obiettivo della riforma: scardinare il sistema degenerato per la scelta di alcuni procuratori e presidenti di tribunali, fondato non sul merito, ma sull’appartenenza degli interessati a gruppi associati, le correnti, che in origine erano nate per esprimere le diversità culturali dei loro componenti.

Premesso che è la stessa magistratura a sentirsi profondamente ferita da alcune nomine decise con logiche spartitorie e a richiedere a gran voce una nuova legge elettorale che assicuri eletti liberi da rapporti con centri di potere, la proposta di riforma elettorale non ha centrato lo scopo perché ha dimenticato le donne.

La riforma sbagliata

Le valutazioni “politiche” fino ad ora svolte ruotano attorno a quorum, collegi, territori e sorteggio, ma non colgono che solo una riforma che preveda il 50 per cento di donne elette al Csm inciderebbe su un sistema ormai avvitato su se stesso.

In sintesi, la riforma prevede che il collegio unico nazionale sia sostituito da 17 collegi e che vinca il più votato con il 65 per cento, altrimenti c’è il doppio turno; se ci sono meno di dieci candidati, si integrano le liste con magistrati sorteggiati; si possono esprimere fino a 4 preferenze ma di genere diverso.

Ma questo, anziché rompere il sistema attuale, rafforza il peso delle correnti più organizzate, che potrebbero far convergere la preferenza solo su chi intendono eleggere. Inoltre favorisce i corporativismi territoriali, creando un legame fiduciario e persino clientelare tra l’eletto e il collegio.

In sostanza, due gruppi associati, radicati in tutta Italia, potrebbero accordarsi a monte in quale circoscrizione far vincere l’uno o l’altro, annientando qualsiasi minoranza e assegnando tutti i collegi uninominali a candidati anche di un solo genere, ovviamente quello maschile.

Non è un caso che proprio le correnti della magistratura non vogliano quote obbligatorie e paritarie di elette: è la paura di alcuni uomini, che sono in fila da anni, di perdere il posto che rivendicano come dovuto e il timore di non operare più con il sistema della loro personale cooptazione, fondata su relazioni non ufficiali fatte di cene ed eventi che, come è noto, sono terreno di caccia per il solo genere maschile, più dotato di tempo libero da obblighi familiari.

Il potere, anche quando mal gestito, non cambia sesso nemmeno nei momenti di crisi, come è di certo quello attuale. Il fortino viene presidiato a qualsiasi costo.

Così le donne vanno escluse, perché riempirebbero spazi degli uomini e per gli uomini.

Come si può immaginare che questi cedano potere pubblico a favore di colleghe che fanno salti mortali tra sentenze da depositare nei termini, indagini accurate non esaltate dalle cronache, allattamenti di bimbi e accudimento dei genitori anziani?

Si tratta di salti mortali relegati a questione privata, sebbene siano la questione più pubblica che ci sia: la causa dell’invisibilità di oltre metà della magistratura.

Solo gli uomini vengono eletti

Il problema è culturale: chi appare, chi ambisce e chi viene eletto è sempre un uomo. Non necessariamente perché più bravo, ma perché il mondo se lo è ritagliato a sua esclusiva misura. Secondo l’Istat, infatti, ancora oggi sono le donne di qualsiasi classe sociale a caricarsi di oltre il 70 per cento delle incombenze familiari. E la soluzione non è di prendere la baby sitter o la badante: a pesare è il carico mentale di decidere a che ora arriva, quando stacca, come sceglierla, a chi telefona di continuo per risolvere i problemi.

Tornando al Csm, il progetto di riforma si limita ad inserire le donne nelle liste elettorali e questo è inutile.

Le donne non verranno elette e resteranno la foglia di fico di chi le candida, per dimostrare che le poche donne in lista non ce l’hanno fatta per loro inadeguatezza e non per assenza di tempo e di reti quotidianamente tessute.

La modesta presenza femminile nel Csm, infatti, si fonda su un dato di fatto millenario: nella divisione sessuale del lavoro, sui cui è strutturato l’assetto sociale, le donne svolgono un’onerosa attività non retribuita e non riconosciuta di cura dei figli prima e dei genitori anziani dopo, per decenni della loro vita.

Ecco la ragione per la quale meno donne si candidano e se elette sono poche e anziane.

Imporre la parità

Per questo, la soluzione è quella di imporre una paritaria presenza femminile tra gli eletti: da un lato scardinerebbe la struttura atavica di contesti familiari e lavorativi liberando la capacità delle donne; dall’altro sottrarrebbe agli uomini gli spazi, sino ad oggi esclusivi, per intessere le relazioni di potere che li conducono ai vertici.

Se avessimo al Csm tante magistrate, con figli piccoli o anziani da accudire, che facessero valere la loro condizione, si avvierebbe il cambiamento delle stesse istituzioni nella gestione di orari e ritmi di lavoro, nella scelta di diversi criteri di selezione dei capi degli uffici, nella valorizzazione della risposta giudiziaria ai cittadini, nell’incentivo alle assenze di paternità.

A cascata, questo imporrebbe ai mariti di quelle stesse magistrate di dividere equamente il lavoro di cura, così trasformando la società dal basso.

Sino ad oggi, invece, nessuno si è preoccupato di ripensare un’istituzione che si sta femminilizzando, come dimostrano i numeri. La ragione è che, per gli uomini eletti, questa trasformazione non è importante, perché non ha il loro corpo.

Spesso l'argomento contrario alle quote di genere è quello che non tutti sono portati a svolgere ruoli di rappresentanza.

Capovolgiamo l'argomento con una domanda: in virtù di quale talento particolare, mostrato nel concreto, gli uomini che rappresentano la quasi totalità degli eletti sarebbero più dotati?

Il loro vantaggio dipende solo da un gioco con regole truccate: se la donna ha un peso di 100 chili ai piedi (l’attività di cura) non può competere alla pari nella corsa con chi è libero e si allena tutti i giorni.

O alla donna si toglie il peso, oppure le si danno 200 metri di vantaggio. Per questo è auspicabile che il parlamento preveda quote obbligatorie di risultato delle donne nel Csm nella misura del 50 per cento.

Le donne non sono migliori o peggiori, ma esistono e, come scrivono Tim Besley, Olle Folke, Torsten Persson e Johanna Rickne in uno studio pubblicato dalla London School of Economics,  la presenza paritaria “migliora la competenza della classe dirigente nel suo complesso”.

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