Gli interventi dell’ex presidente della Bce Mario Draghi ma anche del commissario agli Affari economici Paolo Gentiloni al meeting di Rimini ci aiutano a porre la discussione sul che fare per affrontare al meglio le drammatiche conseguenze della pandemia da Covid-19 ponendo temi che non riescono a conquistare uno spazio centrale nel dibattito pubblico in Italia.

Mi riferisco in particolare allo spazio che entrambi hanno dato alla sostenibilità come orizzonte inevitabile di tutte le “ricette” per la ripresa: Draghi nota che le risposte ai cambiamenti climatici e le trasformazioni economiche e sociali che ne conseguono stanno al primo posto nelle preoccupazioni del 75 per cento dei cittadini dei 16 paesi più avanzati e Gentiloni assicura che sostenibilità, innovazione e inclusioni saranno le vie maestre che la Commissione europea seguirà nell’attribuzione del Recovery Fund e delle altre risorse a disposizione degli stati membri, risorse che dunque non possono essere usate come mance a questa o quella categoria.

In altre parole, se non si centra fin da subito la direzione di marcia che la ripresa economica e sociale dovrà seguire, se a livello europeo e nazionale non ci si danno gli strumenti per superare divisioni, con efficacia e solidarietà, conseguendo risultati visibili in tempi brevi e se non si agisce in modo non solo trasparente ma capace di convincere e coinvolgere le persone in questa grande opera di costruzione (e non di mera “ri-costruzione”) di un sistema nuovo, non solo rimarremo indietro noi italiani, ma il rischio di un’Europa perdente e irrilevante proprio quando avrebbe molte risposte giuste da dare a se stessa e al mondo, sarebbe inevitabile.

A differenza di ciò che capita in altri paesi europei, una discussione seria su che cosa concretamente significa avviare una “ripresa verde” non è davvero iniziata. Da destra a sinistra, in Italia si può ancora sostenere il Ponte (o il tunnel) di Messina, continuare nella follia di quello della Valsusa, puntare a nuove autostrade, proseguire con sussidi e sconti a settori ambientalmente dannosi (19 miliardi all’anno, nonostante gli sforzi del ministro dell’Ambiente Costa) rendere difficile il decollo delle rinnovabili e dell’efficienza energetica con mille ostacoli nonostante i bonus, continuare a concedere condoni vari e concessioni gratis, addirittura coltivare il sogno di diventare un hub del gas dimenticando improvvisamente che è un combustibile fossile che emette CO2, e allo stesso tempo atteggiarsi a grandi sostenitori della svolta green della economia, dell’organizzazione del lavoro e dei consumi senza tema di perdere credibilità e consenso.

Il disegno di legge “Green New Deal e la transizione ecologica in Italia” presentato un paio di giorni fa dal ministro Costa rappresenta un tentativo, complesso e di difficile valutazione per il momento, per cercare di dare sostanza a una svolta green per ora incerta, ma il rischio è di ritrovarsi appunto con misure puntuali che convivono con altre che vanno in direzione opposta senza una visione di insieme.

Invece, è davvero urgente che in Italia e in Europa si smetta di perdere tempo.

Se davvero abbiamo solo 10 anni per ribaltare la nostra dipendenza da produzioni ed energie climalteranti come hanno ribadito per anni scienziati, politici, operatori economici e associativi più recentemente persino banchieri e soprattutto i giovani (e i meno giovani) scesi in piazza ogni venerdì ovunque nel mondo, allora è sul modo più veloce ed efficace per farlo che si devono concentrare gli sforzi, mettendo in sintonia gli obiettivi di lungo periodo con le scelte dell’immediato, investendo su tecnologie che spesso già esistono ma anche innovando per eliminare al più presto la nostra dipendenza fossile; rendere l’Europa “emission free” entro il 2050, aumentando allo stesso tempo la qualità e la quantità del lavoro, riducendo l’inquinamento facendoci vivere meglio è possibile: ma ci vogliono, per dirla alla Draghi, conoscenza dei fatti, coraggio e umiltà.

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È dal lontano 2008 che le Nazioni unite hanno indicato nella green economy, nella scuola e nella salute i tre settori sui quali investire per ritrovare crescita, qualità di vita e lavoro di qualità per ridurre diseguaglianze e squilibri ecologici.

Già oggi in Italia, seconda green economy d’Europa, efficienza energetica, economia circolare, rinnovabili, riorganizzazione e riqualificazione urbana, bonifiche e manutenzione del territorio rappresentano dei settori di attività economica importanti; ma potrebbero esserlo molto di più se il sistema delle regole fosse più semplice, risorse e investimenti arrivassero in modo più fluido e scuole e università preparassero meglio i giovani a gestirli.

Anche l’industria cosiddetta pesante presenta in Italia esempi virtuosi come Feralpi e disastri come la ex Ilva.

Enel, numero uno nelle rinnovabili, spinge su elettrificazione e idrogeno esclusivamente verde (cioè prodotto a partire da energie rinnovabili) e fa da contraltare a Eni, che spinge ancora su gas e petrolio e con Snam sull’idrogeno blu, cioè prodotto a partire dal gas.

È la politica che deve scegliere dove andare e purtroppo in Italia non è chiaro che sarà in grado di farlo nel modo adeguato.

Proprio per questa ragione, sarebbe davvero necessario che ci fosse anche in Italia una rappresentanza politica forte che metta al centro della sua azione la rivoluzione ecologica sarebbe tutto più semplice, come dimostrano le esperienze in Europa.

A differenza dei miei colleghi e amici Francesco Ferrante e Roberto della Seta, convinti che il problema in Italia sia la dimensione “cocomero” dei Verdi italiani, la loro insufficienza ideologica e la loro supposta propensione al “No” a prescindere, a mio modo di vedere sono due le ragioni che spiegano che questa rappresentanza ancora non sia abbastanza forte.

Innanzitutto un contesto nel quale da sempre i temi ecologici sono considerati marginali dalla politica e dai media e che rende molto difficile ottenere voti puntando su questi, come ben sa il Movimento 5 stelle, che non ha esitato ad abbandonare la stella ambientalista per conquistare il potere.

Ha pesato anche una persistente diffidenza dei settori associativi e anche economici attenti alla sfida della trasformazione ecologica - che non è solo ambientale ma anche sociale e democratica - che non hanno mai voluto investire ed essere protagonisti in una forza politica ecologista autonoma, che è a sua volta apparsa spesso come chiusa, non particolarmente organizzata e attraente.

Se in altri paesi come in Francia, Olanda e Germania forze nuove hanno “ribaltato” e rinnovato i verdi esistenti senza sostituirli del tutto perché hanno capito che era meglio puntare sull’unità di tutte le forze ecologiste, da noi questo non è ancora accaduto, certo anche per limiti e chiusure degli stessi Verdi italiani ma, appunto, non solo.

Sono perciò molto contenta che ci troviamo d’accordo sull’urgenza di una proposta ecologista autonoma, forte, credibile e in grado di coinvolgere competenze e personalità autorevoli ma anche il vastissimo mondo dei ragazzi e ragazze che si sono mobilitati per il clima nei mesi scorsi e che non trovano nell’azione del governo soddisfazione alle loro giuste e urgenti richieste. Ma questo sarà possibile solo con l’unità di tutte le forze ecologiste e non con la competizione e divisione fra loro.

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