Si chiama revenge porn ed è un reato odioso, la cui fattispecie è stata introdotta da poco più di un anno nel cosiddetto “codice rosso”. L’obiettivo di chi commette questo reato è screditare la vittima usando immagini e video intimi e privati tramite i social network.

È un reato molto diffuso, anche se ancora poco denunciato, per il quale già alcune ragazze (sono normalmente loro le vittime predestinate) si sono tolte la vita incapaci di affrontare la vergogna e la gogna mediatica che ne segue; perché siamo ancora a questo punto, chi è vittima di questo reato è socialmente considerata colpevole di aver tenuto certi comportamenti, insomma alla fine è la solita storia: se l’è andata a cercare.

A Torino è venuta alla luce una vicenda che risale a qualche tempo fa: una maestra invia foto e video intimi al suo compagno, con il quale intrattiene una relazione sentimentale. Alla fine del rapporto, però, lui decide di pubblicare quelle immagini nella chat che condivide con i compagni della sua squadra di calcetto, che a loro volta le diffondono in altre chat sino a raggiungere alcune madri dei piccoli allievi della scuola materna dove la ragazza insegna e che “preoccupatissime”  si rivolgono alla responsabile dell’istituto perché prenda provvedimenti contro la maestra  sino a quel momento apprezzata e stimata.

E qui scatta la riprovazione sociale e l’obiettivo dell’autore del reato è raggiunto: la maestra perde il posto di lavoro, dopo essere stata messa alla gogna dalla direttrice di fronte alle colleghe a cui sono mostrate le “famigerate” immagini.

La vittima quindi subisce una seconda violenza: viene licenziata per aver subito un reato. Sì perché nel 2020 è ancora considerato riprovevole, vergognoso e inaccettabile vivere liberamente la propria vita affettiva e sessuale e condividere con la persona con la quale si ha un rapporto sentimentale immagini intime, private e destinate ad essere tali. Mentre in realtà è vergognoso e immorale il comportamento di chi ha violato il suo privato, di chi ha stigmatizzato questi fatti rendendoli pubblici e disonorevoli e in generale di tutte le persone coinvolte.

Questa ragazza è stata coraggiosa: ha denunciato non solo il suo ex, che rischia una pena da uno a sei anni di carcere, ma anche la direttrice dell’asilo che ha assunto comportamenti di violazione della privacy e discriminatori indipendenti dalla professionalità della sua dipendente e determinati, invece, esclusivamente dalla vicenda privatissima. Sono poche quelle che  denunciano, proprio per paura di subire la disapprovazione e la condanna della famiglia, degli amici, della società  ancora incapaci di riconoscere chi è la vittima e chi è il colpevole.

E questa sofferenza ci è stata confermata  dall’avvocato Domenico Fragapane che, insieme al collega Dario Cutaia, assiste la vittima, e che ci racconta che l’assistita e la famiglia sono molto provate da tutto quanto accaduto e per tentare di contenere, quanto possibile, ogni maggior turbamento, le difficoltà e l’imbarazzo conseguenti, riservano ogni dichiarazione sui fatti accaduti esclusivamente alla sede processuale, dove confidano potrà emergere la plateale lesione dei diritti personalissimi subita da una giovane donna e quanto l’utilizzo sconsiderato dei social possa pesantemente riverberarsi nella vita reale.

Fra pochi giorni infatti inizierà il processo e fortunatamente la nostra legislazione ha al suo interno gli anticorpi per reagire ad una vicenda come questa: ci sono norme sia sul piano penalistico che su quello civilistico che possono ridare dignità a questa ragazza e risarcirla dei suoi danni morali e materiali.

Ma nessun risarcimento potrà mai cancellare la sofferenza procurata dal suo ex fidanzato, dalla direttrice e dalle mamme degli alunni; il primo mosso probabilmente da un sentimento misogino di vendetta per avere subito l’“onta” di essere stato lasciato, le altre specchio di una cultura bigotta e ipocrita, dura a morire nel nostro Paese, che ancora non consente di riconoscere in quei comportamenti libere scelte che nessuno si può permettere di sindacare e che determina, e quasi giustifica, atti discriminatori contro la vittima che trovano la loro effettiva motivazione esclusivamente nella riprovazione.

 «Il giudizio di chi ti vuole far sentire sporco, il tradimento e tutti quelli che vogliono, ad ogni costo, il tuo silenzio.. ti uccide dentro». È questo l’unico amaro commento di questa giovane insegnante

La vicenda ha suscitato grande risonanza e indignazione, sia fra il movimento femminista, pronto a schierarsi al fianco di questa donna per affiancarla nella sua battaglia, e per offrirle sostegno e vicinanza anche con atti concreti (per esempio, se possibile, un intervento ad adiuvandum nel processo) sia in tanta parte della comunità cittadina con interventi  e post di solidarietà sui social e sulla stampa locale.

Si spera che la giustizia faccia al più presto il suo corso e che venga dato il giusto risalto dai media alle conseguenze alle quali sono esposti, tanto sul piano penale che su quello civile, gli autori di questi reati: questo può veramente aiutare a cambiare la cultura, a spronare le donne a denunciare e a non rivittimizzare chi già ha subito un’odiosa violenza.

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