Dalle pagine di questo giornale, il professor Paolo D’Angelo è intervenuto lo scorso 14 dicembre in difesa del genere umano, sottolineando le fondamentali differenze che esistono fra la nostra specie e le piante da me indicate come modello dal quale trarre importanti insegnamenti. L’argomento principale utilizzato dal professore è che gli esseri umani sono «irriducibilmente diversi dalle piante». Per D’Angelo, che lo scopo primario della vita sia la sopravvivenza della vita stessa, è un «rovello» inesauribile che l’uomo non può accettare in quanto «contraddittorio e raggelante».

Non so cosa ne pensino le 700 milioni di persone che soffrono la fame nel mondo o quelle migliaia viste ieri in fila a Milano in attesa di un pasto caldo, ma secondo D’Angelo, la sopravvivenza non è il solo scopo della vita degli uomini. Per tutte le altre milioni di specie presenti sulla Terra, sì, quello è lo scopo, ma non per noi. Per noi c’è ben altro. Nonostante il professore ci rassicuri su questo punto, temo che questa speciale situazione dell’uomo non abbia alcun sostegno scientifico. Non è un fraintendimento di poco conto. Nasce dal considerarsi al di fuori e, soprattutto, al di sopra degli altri esseri viventi, l’aggressione mortale che la nostra specie sta portando all’intero ecosistema – alla casa comune come la chiamerebbe papa Francesco – dal quale dipende la sua stessa sopravvivenza. La presunta superiorità dell’uomo, che secondo D’Angelo è palese, credo necessiti, al contrario, una riflessione più approfondita.

Che l’uomo, infatti, sia la migliore, la più sviluppata e complessa fra tutte le specie viventi è qualcosa di cui tutti noi siamo fermamente convinti. Nessuno penserebbe di essere peggio di un maiale, di un verme, di una felce o di un fungo. È inconcepibile immaginare che un’altra specie vivente possa essere migliore di noi. Ma da cosa deriva questa convinzione? Ovviamente, dal nostro grande e superiore cervello. Siamo in grado di scrivere la Divina commedia, di dipingere la Cappella Sistina, di immaginare la teoria della relatività o di discutere sulla superiorità delle specie.

È su questa capacità di utilizzare il cervello che basiamo la convinzione di presunta superiorità. Alla fine, se non avessimo questo grosso cervello, saremmo una specie come tutte le altre. È questo ciò che pensiamo. La domanda fondamentale è, quindi: avere questo grosso cervello ci rende davvero migliori degli altri esseri viventi? O, in altri termini, avere un cervello come il nostro, è un vantaggio evolutivo o, piuttosto, uno svantaggio? Per chiarire la questione dobbiamo prima precisare cosa si intenda con il termine “migliore”.

Obiettivi ed efficacia

L’idea di “meglio”, sottintende che ci sia un obiettivo da raggiungere e che sia possibile misurare l’efficacia con la quale lo si raggiunge. In un gara di salto in alto l’obiettivo è saltare più in alto degli altri. Chi salta più in alto è meglio degli altri. Semplice e senza discussione: c’è un obiettivo (saltare più in alto) e c’è la possibilità di misurare il risultato finale. Ma nella vita, per qualunque vita, qual è l’obiettivo principale? L’obiettivo primigenio, da cui tutti gli altri dipendono? Nonostante la contrarietà del professor D’Angelo il primo, vero, irrinunciabile obiettivo per qualunque essere vivente, uomini, ovviamente, inclusi è la sopravvivenza della specie. Il motivo è ovvio, se la specie non sopravvive, ogni altro obiettivo è irrilevante. Cessa di esistere con la specie. Se ci estinguessimo domani a chi potrebbe mai interessare se abbiamo scritto la Divina commedia, il Don Chisciotte eccetera? Per chi mai potrebbe filosofare il professore?

Ora che conosciamo l’obiettivo, per capire se siamo davvero meglio delle altre specie viventi, dobbiamo domandarci come siamo messi in questa gara per la sopravvivenza e, soprattutto, che risultati hanno raggiunto le altre specie. Come un saltatore che apprestandosi a partecipare a una gara di salto in alto, si informa su qual è l’altezza media che gli altri saltatori sono in grado di raggiungere, così dovremmo chiederci: quanto sopravvive in media una specie? Ebbene, la vita media delle specie (una stima grossolana) è intorno ai 5 milioni di anni. Una bella cifra. Poiché l’Homo sapiens esiste da soli 300.000 anni, dovremmo attenderci che, anche senza essere meglio delle altre specie viventi, ci dovrebbero spettare ancora 4.700.000 anni di vita. Sarà vero? Ce la farà l’uomo? In soli 10mila anni abbiamo ridotto a metà la popolazione arborea della Terra da cui dipende la nostra sopravvivenza, e nello stesso impercettibile intervallo di tempo siamo riusciti a coprirla di una tale massa di materiali da superare il peso dell’intera vita, la prospettiva di altri 4 milioni e mezzo di anni, appare perlomeno incerta.

Se la nostra specie arriverà alla vita media o se, addirittura, riuscirà a vivere ancora di più, non è dato saperlo. Ovviamente me lo auguro: ripongo grandi speranze nel nostro cervello. Tuttavia, prima di dichiararci meglio, pensiamo a sopravvivere altri 4.700.000 anni. Quando li avremo superati potremo dire di essere meglio della media. Prima potremmo rischiare una figuraccia.

Il modello delle piante

Un’altra cosa che proprio non va giù al prof. D’Angelo e che, anzi, lo fa addirittura «irritare», è che io mi azzardi a dire che le piante, maestre di sopravvivenza, possono essere un modello diverso cui ispirarci nella costruzione delle nostre organizzazioni. A costo di irritarlo ulteriormente cercherò di condividere con i lettori i motivi di questa mia convinzione.

Tutte le organizzazioni umane sono costruite sul modello del nostro corpo: un cervello che coordina le funzioni di organi singoli o doppi specializzati in particolari funzioni: due polmoni per respirare, uno stomaco per digerire, due occhi per vedere ecc. Si tratta della classica organizzazione piramidale e gerarchica che abbiamo replicato dappertutto.

La mia università, questo giornale, i governi, le biblioteche, gli eserciti, le aziende, tutto è costruito in questa maniera perché noi siamo costruiti così e ci piace fare le cose a nostra immagine e somiglianza. D’altronde siamo pur sempre il meglio che c’è in circolazione, a cosa altro dovremmo ispirarci? Ma è l’unico tipo di organizzazione possibile? Il prof. D’Angelo rabbrividirà scoprendo che questo tipo di organizzazione è presente soltanto negli animali i quali, tutti insieme, rappresentano un irrilevante 0,3 per cento in peso della vita. Il restante 99,7 per cento si è evoluto su modelli diversi. Come mai? Perché la nostra organizzazione animale benché sia efficiente nel rispondere velocemente agli stimoli esterni, è fragile: basta che uno solo di questi organi specializzati sia danneggiato perché l’intera organizzazione collassi. Ora, provate a immaginare una pianta con un cervello o dei polmoni o un cuore; il primo insettino che provocasse un buco in questi organi, pregiudicherebbe la vita dell’intero organismo.

È per questo che le piante si affidano a un modello distribuito e diffuso, in cui non sono gli organi specializzati a svolgere le diverse funzioni, ma l’intero corpo. Si tratta di un modello opposto rispetto a quello animale e incredibilmente più robusto. Non avendo organi fondamentali singoli o doppi, si può asportare gran parte del corpo di una pianta senza che ne sia pregiudicata la sua sopravvivenza. Le piante sono costruite, quindi, secondo un modello distribuito e senza centri di comando, in grado di adeguarsi in tempi rapidi a continui cambiamenti e capaci di resistere a ripetuti eventi catastrofici senza perdere di funzionalità. Non è un caso se internet, il simbolo stesso della modernità, sia costruita nella stessa maniera. Insomma, le piante sono delle fuoriclasse della sopravvivenza che nel corso della loro evoluzione hanno sviluppato soluzioni tanto diverse da quelle degli animali da essere, spesso, il loro opposto. Proprio perché così diverse da noi, potrebbero insegnarci tanto se non fossimo ciechi e presuntuosi. Dopotutto: Primum vivere, deinde philosophari

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