La notizia dell’elezione di Giorgia Meloni alla presidenza del partito europeo dei Riformatori e conservatori (Ecr) ha avuto un certo rilievo, un po’ perché Giorgia Meloni è sulla cresta dell’onda e un po’ perché si è detto che questa è la prima volta che un’italiana assumeva questo incarico. In realtà, non è così, perché la prima è stata Grazia Francescato, che dal 2003 al 2006 ha co-presieduto la federazione dei partiti Verdi europei, che nel 2004 è diventato il Partito verde europeo. E la seconda sono stata io, dal 2009 al 2019.

Non è naturalmente un caso che siano state due donne verdi a essere le prime italiane elette alla testa di un partito europeo, dato che nelle regole interne di tutte le forze ecologiste la doppia testa o la parità nelle candidature e negli organi dirigenti è uno standard da molti anni.

E non è un caso che in giro per l’Europa tra i nuovi sindaci ecologisti eletti in vari paesi ci siano moltissime donne: a differenza di quello che succede in Italia, dove le ultime elezioni amministrative hanno penosamente ripresentato la realtà di consigli con meno del 10 per cento di donne elette. Senza contare che ancora oggi, insieme a Giorgia Meloni, c’è solo Elena Grandi, la co-portavoce dei Verdi, alla testa di un partito politico.

Un caso interessante è quello della Spagna, paese simile per cultura al nostro e arrivato alla democrazia molto dopo di noi. Lì, le donne sono presentissime da anni a tutti i livelli e in tutti i partiti, perfino in Vox, nuovissimo partito di estrema destra membro di Ecr.

Il caso spagnolo

Negli anni, l’evoluzione interna dei partiti e un sistema non troppo rivoluzionario, ma reale, di regole sulle candidature ha reso molto inusuale vedere dibattiti, televisivi o parlamentari, senza donne in ruoli di assoluto rilievo. Per quanto riguarda più specificamente le istituzioni europee, con l’elezione di Ursula von der Leyen alla presidenza della Commissione è stato reale lo sforzo per convincere gli stati a presentare una rosa di due candidati commissari, un uomo e una donna (cosa che l’Italia non ha fatto) da cui lei poi potesse scegliere.

Oggi la sua è la prima Commissione con una parità quasi raggiunta con 13 commissari donna su 27 quando la media precedente non andava oltre le 6 o 7. Anche a livello della potente macchina amministrativa europea, sono ormai anni che i criteri di selezione favoriscono l’arrivo delle donne, che fino a pochissimi anni fa erano perle rare, nei gradi alti dell’amministrazione.

Penso che questi fatti dimostrino che investire in modo strategico e sul lungo periodo nella partecipazione delle donne e stabilire regole interne e quote rappresentino elementi assolutamente indispensabili per il raggiungimento della parità nella rappresentanza politica e amministrativa in tempi brevi e, in generale, per facilitare la partecipazione delle donne nei luoghi di discussione e decisione.

Il fattore donna

Infatti, nella mia esperienza, l’introduzione di quote obbligatorie a tutti i livelli ha negli anni favorito sempre la partecipazione delle donne anche solo per il mero fatto di dovere “aggiustare” ore e metodi di riunione, decisione e selezione dei quadri, a orari e approcci diversi da quello maschile. So perfettamente che questo è un tema ancora controverso in Italia e che la stessa Meloni, che si è definita al maschile nel tweet celebrativo della sua elezione, è fieramente contraria a questo ragionamento. Peraltro, si sarebbe tentati di darle ragione, considerando che è a destra che in Italia si registra la maggiore leadership femminile.

Il punto non è che una donna possa arrivare a livelli di vertice anche senza le quote. Certo che può. Ma in modo più sporadico, difficoltoso e spesso come espressione di una riuscita individuale e non del risultato di uno sviluppo della società. Invece, quote e regole devono essere considerate degli elementi facilitatori e soprattutto transitori.

Ben vengano quindi le campagne come #Halfofit, lanciata dalla deputata tedesca Alexandra Geese, che chiede che la metà dei fondi anti-Covid vengano dati per politiche che favoriscono le donne. O campagne come “no woman no panel”, che chiede agli uomini di non partecipare a dibattiti e trasmissioni televisive in assenza di donne. Il “gender gap” è ancora enorme e non è solo un tema di presenza nei posti che contano: l’assenza di parità determina anche la persistenza della differenza di salari che affligge tutti i paesi europei, e una minore attenzione per i grandi problemi che impediscono a molte donne di svolgere liberamente il ruolo al quale aspirano e all’intera società di approfittarne. Infine, colgo l’occasione per fare a Giorgia Meloni i miei migliori auguri, notando peraltro che in Ecr il comitato esecutivo è composto da tre persone di cui...due donne.

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