Sulla guerra, sulla tragedia della guerra che torna a devastare l’Europa, ho detto molto in queste settimane. Ho scritto meno. Soffro la gravità degli eventi, percepisco fino in fondo l’inadeguatezza dei pensieri compiuti.

Mi colpisce però un aspetto. L’assoluta predominanza di una costruzione narrativa del conflitto nei termini di uno scontro dicotomico. Non soltanto sul terreno morale, tra Bene e Male. Questo lo si può capire, nella misura in cui si è indotti a  esprimere un giudizio sulla base di un postulato che è indubitabilmente giusto: e cioè che esiste un aggredito e un aggressore.

A partire da questo non si va per il sottile, si radicalizzano le opposte caratterizzazioni. Scompaiono le responsabilità profonde della storia che sta alle spalle del 2022, in realtà distribuite meno asimmetricamente di come appare. Rimane la fotografia dell’immediato presente e cioè i torti immondi della Federazione Russa e le ragioni del governo di Zelensky.

Occorrerebbe che si desse alla discussione una profondità differente, mettendo in luce alcuni elementi essenziali che spiegano il contesto. Lo giustificano? No, mai. Eppure lo spiegano, nella concatenazione logica (benché contraddittoria, mai meccanica) dei fatti, almeno dal 1991 in avanti. È il rapporto tra storia e politica, che non si dovrebbe mai mettere tra parentesi.

Scontro di civiltà?

Ma vi è un’altra dicotomia che mi colpisce. Mi colpisce di più perché è meno comprensibile. Anzi: è palesemente falsa.

Si esalta la dimensione europea dell’Ucraina, la sua radice innegabilmente europea; e la si contrappone a una natura all’opposto orientale, asiatica, della Russia. Sul piano della cultura, della storia, di quello che potremmo chiamare il modello di civilizzazione.

Putin - si argomenta - non è che l’ultimo erede di una tradizione autocratica che affonda le sue radici nei paradigmi archetipici che dagli zar portano a Stalin senza soluzione di continuità. L’Ucraina contiene invece il seme della cultura europea: è l’ipostasi dei diritti civili e dei diritti umani. È - in sé - democrazia e Stato di diritto.

È questa comunanza ontologica tra l’Europa e l’Ucraina (meglio: l’internità ontologica dell’Ucraina a un’Europa intesa come comunità di destino costruita intorno a Stati nazionali omologhi e liberamente associati) che deve indurre i governi europei - si argomenta - a correre in soccorso della sorella aggredita.

A me questo pare un discorso molto pericoloso. Una chiamata alle armi in nome di uno scontro di civiltà tra Occidente democratico e Oriente illiberale è pericolosa per due ragioni.

Per le conseguenze che potrebbero determinarsi, laddove la chiamata alle armi produce una vera e propria escalation militare e coinvolge potenze nucleari. E perché il presupposto che si agita è infondato.

Se esiste in Europa uno Stato tanto fragile sul piano della tradizione democratica, tanto distante dalla nozione classica di Stato nazionale, privo di confini storici, tanto plurale sul terreno identitario, questo è lo Stato ucraino.

Cos’è l’Ucraina, infatti, se non - per antonomasia - la terra di frontiera? Nata come rottura della Rus’ medievale, frammentazione di un’unica nazionalità pan-russa. Uno Stato nel quale neppure la maggioranza etnica e linguistica dà vita a un corpo omogeneo e coerente. L’Ucraina è patria di russi, bielorussi, moldavi, bulgari, rumeni, polacchi. Ma anche di armeni, georgiani, greci, azerbaigiani. E cosa dire dell’elemento religioso, che è spesso la clava dell’auto-definizione e dell’auto-affermazione identitaria? In Ucraina convivono da sempre minoranze ebraiche e musulmane, i greco-cattolici, ben tre Chiese ortodosse, di cui una legata al patriarcato di Mosca.

Ucraina come frontiera

E allora questo meraviglioso, complesso, affascinante, contraddittorio punto di intersezione tra mondi, questo miscuglio straordinario di impurezze, merita di essere riconosciuto e descritto in quanto tale.

E merita di trovare un equilibrio di tipo nuovo. Tanto più nella misura in cui ogni analista geopolitico ci ricorda che esso è davvero generativo, ombelico nevralgico del mondo. In questo heartland, cuore della terra di cui ci parlano i classici, da Mackinder in avanti, si giocano da sempre i più grandi scontri per l’egemonia.

I quali sempre, se non si compongono in una soluzione in grado di riconoscere i problemi che essi esprimono, esplodono nella forma della guerra. Fino a che la fine delle ostilità costruisce sulle macerie un equilibrio diverso, nuovo.

Oggi la guerra già c’è, ma il rischio è che questa guerra, una delle decine che insanguinano il mondo, si trasformi nella guerra finale. Mondiale e finale.

Siamo di fronte a un bivio, allora.

La prima strada è aspettare che la storia proceda come da copione. Se la scelta è questa non soltanto ha senso armare gli ucraini fino ai denti, spingerli in una guerra da combattere centimetro dopo centimetro allo scopo di sconfiggere militarmente, sul campo, la Federazione Russa. Se la scelta è questa, tra poche settimane, forse tra pochi giorni, avrà senso impegnare direttamente la Nato, la sua aviazione, scaldare la miccia nucleare.

Se la scelta è questa, ha senz’altro senso anche costruire e rafforzare questa cinica macchina di propaganda che nasconde gli antefatti, omette la storia, criminalizza il popolo russo in quanto tale, arma contro di esso la guerra di civiltà arruolando una identità ucraina più mitologica che reale.

Europa soggetto di pace

La seconda strada pronuncia invece una parola che sembra maledetta. Trova il coraggio di mettere in campo l’Europa come soggetto di pace. Come grande soggetto politico unitario capace di indicare la via della pace.

E cioè di farsi garante di un accordo credibile, che salvaguardi prima di tutto la dignità degli aggrediti e in secondo luogo progetti una configurazione della mappa politica più coerente con la realtà e la pluralità degli attori che la compongono. Un’Ucraina federale, plurale, che riconosca quello che la comunità internazionale sa o almeno intuisce da sempre, persino da prima dei protocolli di Minsk: e cioè che è necessario garantire la sovranità dell’Ucraina, la sua indipendenza militare e politica e un certo livello di autogoverno e di autonomia del Donbass e della Crimea.

È la resa, come ci viene imputato dagli zelanti difensori della prima opzione? Non è la resa ma è un compromesso. È il tradimento dell’Europa e delle sue ragioni, di una resistenza ucraina che con una grossolana analogia viene equiparata alla resistenza al nazi-fascismo degli anni Quaranta del Novecento?

Non è un tradimento ma è l’inveramento dell’Europa reale e dell’Europa possibile. Per il semplice motivo che questa via avvicina il cessate il fuoco e risparmia vite umane. E può costruire su basi più solide l’equilibrio che verrà, facendo di questa terra straordinaria, oggi aggredita e martoriata, l’emblema della riconciliazione, dell’incontro tra lingue, culture, religioni. Di una terra di confine e di frontiera che non è Occidente e non è Oriente e che allora, proprio per questo, può diventare la rivincita della storia contro i nazionalismi e l’orrore delle guerre, l’alba di un tempo nuovo.

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