Il dato finanziario su cui si concentra l’attenzione in Italia è lo “spread”, il differenziale tra il rendimento del titolo di stato italiano a 10 anni rispetto a quello tedesco. L’effetto Draghi lo ha fatto scendere intorno ai 100 punti base, come non accadeva dal 2015, creando la percezione dell’assenza di rischi finanziari. L’attenzione concentrata sullo spread è però una forma di strabismo finanziario che può distorcere la visione della realtà.

Lo spread misura il differenziale con la Germania, non il livello assoluto dei tassi: la variabile che invece conta per la sostenibilità del debito pubblico, il rendimento dei risparmi, o i bilanci delle banche. E il livello dei tassi, a parità di spread, dipende dall’andamento dei tassi in Germania.

Non c’è poi solo il tasso a 10 anni (quello usato per misurare lo spread), ma un’intera curva, da quello sulle operazioni interbancarie a breve, controllato dalla Bce, fino a quello dei titoli a 30 o 50 anni determinato dalle forze di mercato, che le banche centrali possono solo contrastare.

Infine, i tassi euro, in un mondo globalizzato, dipendono da quelli sul debito pubblico americano in quanto il mercato di gran lunga più vasto, liquido e importante al mondo. E qui cominciano i problemi.

Il distacco dagli Stati Uniti

Gli Stati Uniti stanno uscendo molto più rapidamente dell’Europa dalla crisi, e la prospettiva che per giugno tutta la popolazione adulta sia vaccinata fa presuppore un’esplosione dei consumi privati, reso possibile dal forte aumento dei risparmi e delle disponibilità liquide accumulate dalle famiglie, un indicatore dei consumi repressi dal Covid. E negli Usa i consumi privati rappresentano il 68 per cento del Pil.

A questo si aggiunge l’impatto dell’ulteriore pacchetto fiscale da 1.900 miliardi dell’amministrazione Biden. Le previsioni vengono così riviste al rialzo, con un consenso per la crescita dei consumi quest’anno al 5,5 per cento che, secondo alcuni analisti, dovrebbe spingere quella del Pil oltre il 6 per cento: un tasso “cinese”.

Non ci sono segnali di ripresa dell’inflazione che, misurata dall’indice della spesa per i consumi (indicatore preferito dalla Federal Reserve) è al 1,45 per cento, e da 10 anni al di sotto dell’obiettivo dichiarato del 2 per cento. Tuttavia, la forte ripresa dei consumi e l’espansione fiscale fanno temere un’accelerazione dell’inflazione.

La Fed non dissipa questi timori, confermando che la politica rimarrà espansiva (120 miliardi di acquisti di titoli al mese) perché lontani piena occupazione e dall’uscita dalla crisi dei settori maggiormente colpiti dal Covid.

Inoltre, ha ufficializzato che l’inflazione-obiettivo al 2 per cento non è più un livello massimo (come lo è per la Bce), ma medio di periodo: e poiché l’inflazione è inferiore al 2 per cento da 10 anni, ci si aspetta che la Fed accetterà che la crescita dei prezzi rimanga al di sopra di questo livello anche per periodi prolungati.

Le richieste degli investitori

Di fronte a questa prospettiva gli investitori hanno cominciato a richiedere rendimenti più elevati sui titoli a lunga scadenza (facendone crollare i prezzi): il tasso sui Treasury Bond a 10 anni è triplicato, dal minimo di 0,5 per cento di agosto fino a sfiorare l’1,6. La salita ha fatto cadere i titoli azionari in quanto riduce il valore attuale scontato degli utili futuri, e innescato un rialzo dei tassi nel mondo.

La prospettiva di un’inflazione in eccesso al 2 per cento rende però insostenibile il livello attuale dei tassi: con questa inflazione, infatti, storicamente un rendimento a 10 anni dovrebbe collocarsi intorno al 3-3,5 per cento.

La Fed si trova dunque in un vicolo cieco. Non può abbandonare la politica espansiva per controllare le aspettative di inflazione, perché sarebbe recessivo, ma non può neppure vedere i tassi salire al 3 per cento perché provocherebbe un crash dei mercati azionari e del credito, con un effetto ricchezza depressivo sulla fiducia e sui consumi.

Una via di uscita sarebbe che la Fed riesumasse le operazioni “twist” degli anni Cinquanta, in cui vende titoli a breve per comperare quelli a lungo al fine di fissare l’intera curva dei tassi a un livello predeterminato. La Fed nega di volerlo fare. Ma in questo modo si lascerebbe galoppare l’economia e la Borsa, mentre un periodo limitato di inflazione moderatamente riduce il valore del debito, pubblico e privato.

Perché è questo il vero problema: come si esce dall’esplosione di debito causata dai quantitative easing e dal Covid?

Come evitare l’austerità

Se l’inflazione è limitata nel tempo, e non si autoalimenta cambiando le aspettative, gli anni Cinquanta insegnano che si può uscire dall’eccesso di debito (allora per la guerra) garantendo crescita sostenuta e pieno impiego, senza shock finanziari. E’ una strategia rischiosa ma l’alternativa di austerità, aumento delle tasse e default (privati e pubblici), mi sembra di gran lunga peggiore.

Anche nell’Eurozona abbiamo un eccesso di debito da smaltire, ma il contesto è peggiore. Non possiamo isolarci dalla crescita dei tassi Usa: il Btp decennale dai minimi di 0,42 per cento del 12 febbraio, è raddoppiato. Né fa ben sperare la pendenza della parte più lunga della curva che meglio incorpora le aspettative sul futuro: il differenziale di rendimento tra 30 e 5 anni italiano è infatti arrivato a 151 punti, superiore ai 141 degli Usa e doppio dei 74 tedesco.

I tassi nell’Eurozona salgono nonostante la ripresa sia molto più lenta che negli Usa; i fondi del New Generation Ue abbiano un impatto diluito nel tempo; l’inflazione sia inchiodata al di sotto dell’1 per cento; la Bce ritenga invalicabile l’inflazione al 2 per cento; e il patto di stabilità sia solo temporaneamente sospeso.

Gli interventi della Bce sono poi strutturati per comprimere gli spread all’interno dell’area euro, considerandoli la primaria fonte di una crisi finanziaria; le attuali tensioni sul livello dei tassi dimostrano che ce ne sono altre.

Oggi è impensabile che la Bce intervenga a calmierare il livello dei tassi a lunga, per cui ci si limita alle dichiarazioni e alla moral suasion: un’arma spuntata, perché poco credibile. Presto però anche l’Europa dovrà cominciare ad affrontare il problema di come uscire dall’indebitamento eccessivo.

I rischi per noi

La speranza di una crescita esplosiva trainata da un salto di produttività è perlomeno illusoria. La strada dell’austerità e delle tasse è devastante, specie per l’Italia che non cresce da dieci anni.

La durata del debito in euro si sta molto allungando: Francia, Spagna e Belgio hanno cominciato a emettere titoli a 50 anni, e penso che lo farà anche l’Italia che ha già svariate emissioni a 30 anni; Austria e Renania-Vestfalia sono arrivati a 100 anni di scadenza.

Sarebbero dei presupposti ideali per pensare anche da noi a una via di uscita tipo anni Cinquanta con un periodo limitato di inflazione e controllo dei tassi a lunga da parte della banca centrale. Sarebbe il male minore. Ma oggi è fantasia o anatema. Così, si preferisce calciare la palla in avanti.

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