«Non vedo l’ora che tutto questo finisca, ma allo stesso tempo vorrei che non finisse mai». Potrebbe essere una frase pronunciata da Beth Harmon – la giovane protagonista di La regina degli scacchi, serie tv Netflix di grande successo in questo secondo lockdown –   quando si trova combattuta tra il desiderio di fuggire dall’orfanotrofio in cui è cresciuta e la voglia di rimanervi per non perdere alcuni importanti legami e non trovarsi impreparata nell’affrontare l’ignoto che abita fuori da quelle mura. Si tratta invece della frase con cui esordisce Diana, giovane paziente adolescente, che come tanti suoi coetanei non vede l’ora di fuggire dalle mura di casa per incontrare gli amici, ma allo stesso tempo si sente “in sicurezza” e protetta dalla sua casa e dalla famiglia. Quando le chiedo se intendeva dire “al sicuro” credendo in un lapsus, mi corregge dicendo che intendeva proprio dire “in sicurezza”.

Mettere in sicurezza è senza dubbio una delle espressioni più abusate dal 21 febbraio scorso; mettere in sicurezza i luoghi di lavoro, le scuole, gli ospedali, i mezzi pubblici per ridurre al minimo la diffusione del virus e il rischio di contagi. Un’espressione che sta generando esiti e dinamiche psichiche opposte generando invece insicurezza in molti di noi, soprattutto tra i più giovani che, al pari comunque di tanti adulti, si stanno affezionando alla cosiddetta claustrofilia da virus, ovvero il senso di conforto, protezione e piacere che solo gli ambienti chiusi possono offrire. In questo caso non parliamo solo delle mura domestiche o della propria cameretta, ma anche di relazioni interpersonali ed affettive sempre più ridotte ed esclusive. Chi aveva già eletto a rifugio il chiuso della propria casa prima della pandemia si è ritrovato ad assistere alla celebrazione mondiale del proprio credo.

L’incessante storytelling di una minaccia che sta fuori –mentre dentro le quattro mura, “tra di noi”, si è al sicuro– sta raccogliendo ogni giorno nuovi fedeli: la casa è più amata del sociale, il chiuso dell’aperto, il dentro del fuori, il disinteresse più della curiosità verso ciò che è nuovo e differente.

Che ne sarà quindi di questa generazione Covid-19 quando sarà cresciuta? I bambini sono rimasti per tutto il primo lockdown nella catastrofe educativa di ininterrotte relazioni con i genitori. I bambini contemporanei, infatti, risultavano già prima dell’isolamento per il Covid-19 più arretrati nelle competenze relazionali con i compagni rispetto ai coetanei di pochi decenni prima: all’asilo infatti preferiscono la ricerca della maestra con cui replicare la relazione con la madre piuttosto che giocare con altri compagni. Gli adolescenti invece potrebbero cavarsela non così male, anche se, all’apertura delle case dopo il 4 maggio scorso, abbiamo notato una regressione nella loro indipendenza.

In un mio articolo pubblicato su una rivista la scorsa estate avevo già scritto quanto i nostri ragazzi si fossero adeguati alle varie disposizioni e di come si fossero dimostrati responsabili come nessuna generazione prima di loro; tuttavia chi si occupa di clinica e lavora con i ragazzi sa che adolescenza e adeguarsi sono termini che non possono stare vicini tra loro e nella stessa frase, poiché l’adolescenza necessita di conflittualità, di ribellione, di vita che pulsa per orientarsi verso quell’adultità che si fonda proprio sulle esperienze di perdita di sicurezza. Abbandonare il porto sicuro per l’esplorazione di un mare fatto anche di tempeste, e quando la tempesta ci sorprende sotto costa la soluzione non può essere quella di ignorarla: bisogna rischiare e il mare aperto spesso è la salvezza.

Solo tra qualche tempo potremo verificare quanto in fretta, e per quanto a lungo, i ragazzi saranno davvero usciti dalla loro condizione di hikikomori forzati o, al contrario, quanto si siano adeguati a quella posizione. Il cocooning, lo stare appunto abbozzolati, è qualcosa che sta caratterizzando anche noi adulti, legittimandoli indirettamente ad abituarsi. Ilaria Rossetti, scrittrice di Lodi e autrice del recente romanzo “Le cose da salvare” pubblicato la scorsa primavera proprio nel bel mezzo della pandemia, ha fatto notare in un post sui suoi social come gli oggetti più acquistati nel recente Black Friday siano stati «una chiavetta che trasforma una qualsiasi televisione in un smart-tv e garantisce l'accesso a tutti contenuti streaming, FIFA 21 per Play Station, uno smartwatch da uomo per attività fisica e, attenzione, un saturimetro».

Questa classifica rappresenta al meglio il nostro bisogno di riempire la casa-capanna di ciò che ci fa sentire più al sicuro: evadere dalla realtà per trovare rifugio in altre storie, giocare ed esorcizzare la morte. Tutto ciò però è solo illusorio e momentaneo perché, come sosteneva la filosofa Hanna Arendt a proposito della cosiddetta felicità sociale, il desiderio muore e non ha un futuro se goduto solo nella vita privata.

Per questo motivo i nostri ragazzi in un periodo eccezionale come questo sono chiamati a un gesto eroico, nel vero senso etimologico di questo termine, ovvero mossi dalla passione. Eroi come fu, suo malgrado Enea, protagonista dell’Eneide di Virgilio: un giovane sopravvissuto all’incendio di Troia, che solca mari in tempesta, portando con sé l’anziano Anchise e il piccolo Iulo che diede le origini alla gens Iulia e quindi a Roma. La modernità di Enea è racchiusa tutta qui, nelle preoccupazioni che i ragazzi hanno tutt’ora per la salute dei loro nonni, nella capacità di resistere, rischiare e ricostruire: la migliore lezione da trasmettere oggi ai nostri figli per progettare, senza alcuna retorica, il domani.

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