Immaginate che un gruppo di persone decida di versare del denaro in una cassa comune e acquistare gli ingredienti per cucinare una bella torta da condividere dopo il pranzo domenicale; e che poi, quando la torta è fatta, ne venga assegnata ai partecipanti solo una piccola fetta corrispondente al 9,4 per cento del totale, mentre il restante 90,6 per cento se lo tiene chi era incaricato di aprire e chiudere il forno.

Ora succede che, con la legge di bilancio 2021 (n.178 del 30 dicembre 2020, art. 1, commi da 386 a 401), il Governo Conte bis ha fatto in tempo a istituire una misura denominata Iscro, acronimo di “indennità straordinaria di continuità reddituale e operativa”: una sorta di cassa integrazione in forma di bonus richiedibile una volta; dedicata esclusivamente agli autonomi in Partita Iva con Gestione Separata (GS); pari al 25 per cento dell'ultimo reddito dichiarato; e attiva in forma sperimentale solo per il triennio 2021-2023.

Si dirà: non è molto, è solo un sostegno una tantum (ritmo letale al quale le misure emergenziali degli ultimi tempi ci hanno abituati), ma è pur sempre qualcosa. Invece no. E i lavoratori autonomi, dalle guide turistiche, agli interpreti, gravemente colpiti dall’attuale crisi del loro settore, fino ai traduttori, agli archivisti, e insomma le figure appartenenti al variegato mondo del lavoro culturale precario, stanno protestando contro questa misura.

Ad esempio attraverso Acta, associazione di lavoratori freelance che ha lanciato in questi giorni la campagna #RidateciLaTorta.

La protesta

Quali sono i motivi della protesta? Anzitutto, l’Iscro prevede un aumento della contribuzione Inps, per questa categoria di autonomi, dello 0,26 per cento nel 2021 e dello 0,51 per cento nel 2022 e 2023: prelievo che risulta davvero iniquo e ingiustificato, non solo considerando la drammatica situazione economica che molti stanno affrontando in questo momento, ma soprattutto se ci si prende la briga di verificare il saldo tra quanto gli autonomi già versano all’Inps e le indennità effettivamente ricevute tra maternità, malattia e assegni familiari. La proporzione è, appunto, 9,4 per cento contro 90,6 per cento. I “Rendiconti delle Gestioni Assicurative e/o Previdenziali” relativi al 2019 sono accessibili a tutti collegandosi al sito dell’Inps. Da questi emerge, segnalano gli attivisti di Acta, un eclatante divario tra entrate e uscite dell’ente previdenziale: oltre 161 milioni di euro sono stati versati dai contribuenti, a fronte di indennità erogate per poco più di 15 milioni.

Con un attivo, dunque, di circa 146 milioni di euro. Avanzo che viene alimentato da quei lavoratori autonomi a Partita Iva che pagano i contributi previdenziali obbligatori al fondo Inps in Gestione Separata, cioè quello che, secondo le statistiche, raccoglie proprio i più poveri e precari (il reddito medio degli iscritti in maniera esclusiva alla GS nel 2019 è di 15.500 euro) e che serve a sovvenzionare altre casse che, al contrario, sono in passivo.

Perché, allora, questi contribuenti dovrebbero subire un aumento del prelievo per pagare una misura di sostegno come l’Iscro, che ha già margini per essere ampiamente finanziata? Le contraddizioni non finiscono qui. L’Iscro, così come è stata concepita, ha dei limiti che a fronte di un ulteriore prelievo la renderanno accessibile a pochi: può essere richiesta, infatti, solo dai lavoratori a Partita Iva iscritti alla GS da almeno 4 anni, che abbiano registrato un calo del reddito di almeno il 50 per cento rispetto alla media dei redditi del triennio precedente, che nell’anno per cui si chiede il sostegno abbiano avuto un reddito non superiore a 8.145 euro e che, tuttavia, non abbiano cessato l’attività.

L’obbligo dei corsi

Ciò significa, per fare un esempio, che un professionista con un reddito annuo di 10.000 euro ridotto a 6.000 (ben al di sotto della soglia di 8.145 euro), non potrà accedere all’Iscro perché non soddisfa la seconda condizione. L’Iscro, inoltre, potrà essere richiesta solo l’anno successivo a quello in cui si registra il calo del fatturato, dunque non interviene nel momento del bisogno. Ma c’è dell’altro: sebbene la misura sia assimilabile a un trattamento in costanza di rapporto, l’accesso è condizionato dall’obbligo di partecipare a corsi di formazione organizzati da istituti sovvenzionati dallo stato, che richiederanno tempo (al lavoratore) e denaro (ai contribuenti). Insomma, fingendo di ignorare che la crisi lavorativa dipenda da una contrazione della domanda (strutturale o congiunturale che sia), si afferma una politica passiva del lavoro già conosciuta con il sostanziale fallimento dei centri per l’impiego, dei navigator e della Naspi.

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