Si affollano nella mente molti pensieri a leggere le cronache americane di questi giorni. Tanto si potrebbe dire e scrivere e, giustamente. Al proposito ho trovato particolarmente stimolante il contributo di Diletti e Coppola sull’entusiasmante conquista democratica dello stato della Georgia (voti elettorali consegnati a Biden a novembre e rimonta vincente dei candidati Warnock e Ossof nei ballottaggi del 5 gennaio). Gli autori evidenziano come si sia trattato dell’esito di un lavoro di lunga lena, di un progetto portato avanti per parecchi anni con convinzione e perseveranza, sul terreno organizzativo e della partecipazione. In questo contesto, si staglia la figura tanto empatica quanto tenace di Stacey Abrams. Mi pare di poter aggiungere che sia la Abrams sia i candidati risultati poi vittoriosi abbiano messo sul piatto una dote che purtroppo – specie nella politica italiana – è assai rara: la credibilità personale.

Una qualità difficile

Si tratta di una qualità molto difficile da edificare. I cittadini e gli elettori riconoscono credibilità a un personaggio pubblico quando si mostra appassionato, coerente e continuo. Diletti e Coppola, correttamente, individuano nell’insistito sforzo organizzativo delle varie associazioni la posa delle pietre su cui l’insediamento democratico è stato ricostruito, specie tra le minoranze etniche. Ma quel pur possente lavoro (che una volta, in Italia e in Europa, facevano i tanto vituperati partiti politici) non sarebbe stato possibile senza un impegno e una fatica che la Abrams e gli altri (oltre ai senatori neo-eletti ci metto, per esempio, la Ocasio-Cortez e la Ilhan Omar) hanno svolto anzitutto su se stessi, nella ricerca di un nesso genuino e visibile tra credo privato e condotta pubblica, tra ambizione individuale e desiderio collettivo. È questa credibilità che gli elettori hanno ritrovato nei democratici e che i repubblicani hanno del tutto smarrito (tranne lodevoli eccezioni), in un epilogo che si è pericolosamente spostato dal farsesco al tragico.

Contro la linea di Trump

Vengo a un ultimo punto, non inconferente: i giornali degli Stati Uniti hanno dato notizia che molte grandi imprese (Google, Hallmark, Mastercard, Dow Chemical e molte altre) hanno dichiarato di aver sospeso i contributi finanziari in favore degli esponenti repubblicani i quali hanno appoggiato la linea di Trump di diniego della vittoria di Biden. Ciò dimostra quanto sia avvertito il tracollo di autorevolezza e credibilità di questi politici, i quali per partigianeria e ottusità hanno contribuito al caos istituzionale di questi giorni.

Peraltro, in alcuni casi vi è stato l’annuncio della sospensione dei finanziamenti a tutti i partiti ed esponenti politici, democratici compresi. Ne sono già derivate notevoli polemiche: molti si sono domandati perché mai avessero perso il sostegno finanziario delle imprese, nonostante che si fossero comportati con assoluta dignità.

Proprio qui, allora, sta il punto: in politica, dedizione personale alla coerenza e paziente tessitura organizzativa sono essenziali ma altrettanto lo sono i soldi. Obama, tra il 2007 e il 2008, aveva combinato i primi due aspetti con la raccolta di milioni donazioni di modesto importo, in aggiunta – però – non in sostituzione dei contributi di soggetti economicamente forti. Stacey Abrams si è posta in scia.

Servono risorse

Senza risorse finanziarie, i politici sono, dunque, sempre ricattabili. Tornando in Italia, qui credo che emerga il più clamoroso errore. Abbiamo buttato alle ortiche il finanziamento pubblico, pensando che così i partiti avrebbero recuperato autorevolezza e simpatia. Non è stato così: abbiamo verificato che senza soldi non siamo stati capaci di fare organizzazione seria, né selezione di una credibile classe dirigente che trasmettesse empatia e passione per le sorti del paese. Forse è venuto il momento di reintrodurre il finanziamento pubblico, a patto di vincolarlo a forme di organizzazione vera e partecipazione effettiva.  

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