Gli accordi di Parigi del 2015 sul clima hanno individuato obiettivi precisi da raggiungere, ma a distanza di cinque anni i risultati sono insufficienti e gli effetti della pandemia rischiano di metterli tutti in discussione. È necessario, dunque, un impegno che vada oltre gli sforzi inter-governativi e faccia leva, da un lato sull’economia e dall’altro, sulla partecipazione democratica.

Per la prima volta a Parigi, gli stati si sono uniti per affrontare la sfida comune dei cambiamenti climatici: i paesi ricchi si sono impegnati ad investire 100 miliardi di dollari l'anno verso i paesi in via di sviluppo per limitare le emissioni e sostenere la loro resilienza ad eventi climatici catastrofici quali l'innalzamento delle acque, le ondate di calore e i nubifragi. Impegni che ci ricordano come la battaglia contro i cambiamenti climatici sia estremamente connessa con l'economia e sottolineano quanto sia fondamentale trovare soluzioni finanziarie alla riduzione delle emissioni e al contenimento dei rischi climatici. In questo senso, la soluzione più promettente è il cosiddetto “carbon pricing”, indicato da diversi scienziati come la soluzione più efficace per raggiungere gli obiettivi di riduzione delle emissioni.

La Banca mondiale stima che nel 2020 il carbon pricing e le altre politiche di tassazione mondiali hanno inciso su circa il 22 per cento delle emissioni globali di gas serra. Tuttavia il Fondo Monetario Internazionale nota come nel 2019 la media mondiale di carbon pricing sia stata di soli 2 dollari per tonnellata, contro i 75 dollari necessari per rientrare negli obiettivi di riscaldamento globale nei 2 gradi entro il 2030. Come indicato dal Emission Gap Report 2020 delle Nazioni Unite, l’1 per cento delle nazioni ricche è responsabile per più del doppio delle emissioni prodotte dal 50 per cento delle nazioni povere. Il report evidenzia che il carbon pricing aumenterebbe il costo energetico dei combustibili fossili, ma, se opportunamente utilizzate, queste risorse potrebbero contribuire a ridurre la tassazione su altri soggetti e creare nuovi posti di lavoro per miliardi di dollari.

Pensiamo all’Africa. Qui ampie fasce di popolazione vivono in condizioni di estrema povertà a causa dello sfruttamento incontrollato delle risorse naturali da parte delle aziende multinazionali. E questo ci fa subito capire in che modo le comunità locali percepirebbero l’adozione di misure fiscali come il carbon pricing. Al momento, però, ancora nessun paese nella regione sub-sahariana ha adottato misure simili. Molti di questi paesi non hanno un contesto istituzionale e legale per avviare un processo di esternalizzazione delle emissioni, per questo iniziare un dialogo con agenzie di sviluppo locali sarebbe utile ed opportuno. L'Africa è il continente con il più basso tasso di emissioni, ma anche quello con maggior potenziale nel settore delle energie rinnovabili. L'Unione europea potrebbe sponsorizzare sul continente africano progetti come il carbon pricing, di più e meglio di quanto non faccia con altri attori istituzionali e la cooperazione internazionale con l’Area di Libero Scambio Continentale Africana (CFTA) sarebbe cruciale per allargare i benefici del carbon pricing all'Africa evitando tendenze protezionistiche.

Molti governi non europei, però, sono ancora molto riluttanti nell'adottare misure di carbon pricing ed è qui che trova spazio la necessità di un coinvolgimento ampio e decisivo dei cittadini europei. La proposta della Iniziativa dei cittadini europei StopGlobalWarming.eu è di adottare un carbon price di almeno 50 euro per tonnellata, da incrementare a 100 euro entro il 2025, per un gettito stimato a circa 180 miliardi di euro l'anno. Con il raggiungimento di un milione di firme da parte dei cittadini europei di almeno sette paesi dell'Unione entro il 22 luglio, la Commissione Europea è formalmente tenuta a prendere una posizione. 180 miliardi da utilizzare per una più equa e sostenibile crescita, da tutti invocata, per l'innovazione tecnologica e digitale, per la ricerca scientifica e per ridurre le tasse gravanti sulle fasce di reddito più deboli.

English version

The Paris Agreement marked a turning point for international climate action, setting precise goals. But after five years results are insufficient and the pandemic risks to make things worse. It is time to go beyond Government initiatives and activate two additional leverages: markets forces and civic participation. In Paris, for the very first time all nations came together in the common cause of overcoming climate change. Under the Paris Agreement, rich countries undertook to provide 100 billion dollars a year to help developing countries limit their own climate pollution and adapt to the heatwaves, storms and sea level rises underway.

These elements are reminding us how the fight against climate change is interconnected with the economy and the need to find solutions to finance emissions reduction and climate mitigation. One of the most promising options is carbon pricing.

Articles 6.1 and 6.2 of the Paris Agreement provide for enhanced cooperation among states to climate change mitigation, including through market-based approaches such as carbon pricing which has also been hailed by scientists and Nobel laureates as the most cost effective and flexible way to achieve emission reduction.

The world bank estimated that in 2020 the world existing carbon pricing and tax schemes together covered around 22% of the global GHG emissions. However, as reported by the International Monetary Fund,  the global average carbon price in 2019 was only 2 $ per tonne, a small fraction of the estimated $75 a ton price in 2030 consistent with a 2 C warming target. According to the Emissions Gap Report 2020 of the United Nation: “the emissions of the richest 1% of the global population account for more than twice the combined share of the poorest 50 per cent. The reported knowledge is that such a price will drive-up energy costs associated with fossil fuels. But, it concludes nevertheless, that the money could be used to cut other taxes and generate billions of  new jobs if properly deployed.

African populations are largely poverty-stricken from years of unbridled exploitation of their natural resources by multinational corporations.  This leads to look at carbon pricing in developing countries and ask how it is understood by indigenous and local communities. No country in Sub-Saharan Africa has put in place a price on carbon yet. African countries often lack the institutional and legal frameworks to trade carbon, but alignment within regional development communities offers an opportunity to address this. Africa's share of the carbon market remains relatively low, despite its relatively high renewable energy potential.

These considerations are sufficient to lead us looking toward the Europe Union, not only as an actor per se but as a potential partner to lead the African continent benefiting from carbon pricing while other areas of the world are not interested.

National governments outside Europe are indeed reluctant toward carbon pricing, This is why Europe as a whole should take the lead, resistances from some governments that are posing a problem should be addressed and faced involving citizens from all over the Union.

This is exactly where civic action can be decisive. If one million Europeans from at least seven countries will sign online the StopGlobalWarming.eu “carbon pricing” proposal before July 22,the European Commission will be formally asked to take a decision on whether or not to fix a minimum carbon price of 50 Euros per ton, to be raised to 100 by 2025, with an estimated revenue of 180 billion per year.

180 billion per year could be used to promote that “more just, green and digital

growth” that almost everybody is invoking now, furthermore cutting taxes for lower incomes, especially in the areas and sectors most hit by the crisis, and investing in scientific research and technological applications. International cooperation with the African Continental Free Trade area would be crucial to extend to Africa the benefits of carbon pricing, avoiding any revival of protectionism.

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