Il mandato ricevuto dal nuovo governo, dalle mani del presidente Sergio Mattarella, impone al primo punto la revisione del Recovery plan e delle linee di indirizzo strategico cui improntare le scelte di investimento per il rilancio del paese. A partire dal sud, che si gioca l’ultima occasione per riagganciare le regioni su cui si è più investito in infrastrutture e servizi, e (magari) proporsi come avanguardia di un nuovo modello di sviluppo: ecologico, solidale, innovativo, in linea con il nuovo corso europeo inaugurato con il Next Generation Eu. Ma per far questo serve un cambio di passo da parte delle regioni del Mezzogiorno, una presa di posizione comune per l’instaurazione di una interlocuzione proattiva con il futuro governo.

Si tratta di una scelta da adottare subito, onde evitare – ancora una volta – che le decisioni strategiche sul futuro del Mezzogiorno vengano calate dall’alto e imposte “in via d’urgenza”, senza alcuna concertazione con i destinatari. La scelta ad esempio di assorbire nel Recovery plan il Fondo nazionale per la coesione, può essere corretto se finalizzato a delineare una strategia comune, a condizione, però, che venga rispettato il vincolo di destinazione dell’80 per cento al sud. Come sempre, è una questione non solo di mezzi, ma di volontà politica, che va stimolata, prima che il nuovo governo inizi a lavorare.

Per questo, le regioni meridionali potrebbero, e dovrebbero, farsi promotrici di un “programma strategico per il Mezzogiorno”, con proposte condivise e progetti sinergici per la riduzione del divario nord-sud. Un documento che individui a monte i criteri realmente perequativi di diritti e servizi fondamentali (non più solo “essenziali”) – in particolare la tutela della salute, dei diritti sociali e di cittadinanza – e preveda precisi vincoli per il rispetto di obiettivi, destinazione delle somme, mantenimento (comunque) dell’intervento ordinario. 

Sono riforme ambiziose, quelle di cui ha bisogno il Mezzogiorno, e indifferibili. Solo con l’impiego sinergico e parallelo del Recovery fund (209 miliardi di euro) e dei Fondi strutturali destinati ad alcune aree del Mezzogiorno, fra cui la Calabria (50 miliardi di euro), si potrà iniziare a lavorarci seriamente. Per questo, le linee di investimento strategico del Recovery plan dovrebbero incrociarsi, fin dall’inizio, con tutti i comparti interessati dai Fondi strutturali e di investimento europei: il Fondo europeo di sviluppo regionale (Fesr); il Fondo sociale europeo (Fse); il Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale (Feasr); il Fondo Europeo per gli affari marittimi e la pesca (Feamp). In modo che l’impego degli uni amplifichi l’effetto degli altri e la loro coincidenza temporale (2021/2027) funzioni da primo fattore moltiplicatore e di sistema degli investimenti previsti da ognuno. E dalla loro somma.

Questione di democrazia

Per la piena assegnazione dei fondi strutturali alle regioni interessate, queste dovrebbero rivendicare, infatti, il plafond complessivo di tutte le risorse previste dal “Quadro comunitario di sostegno”, incluse quelle normalmente “trattenute” dallo stato per la elaborazione dei Programmi operativi nazionali (Pon). I progetti interregionali potrebbero essere, invece, sostenuti da un “protocollo operativo” aggiuntivo (ex art. 117, 8° comma Cost.), da integrare con gli interventi previsti dal Recovery plan. Ciò per evitare che allo storico meccanismo dell’aggiuntività sostitutiva, si unisca la beffa del “richiamo delle somme non impiegate”, non sempre e non solo per incapacità delle regioni del sud, ma per mancata volontà di attivazione degli strumenti di sussidiarietà verticale da parte dello stato centrale.

Lo sviluppo delle regioni storicamente più arretrate – e oggi maggiormente colpite dalla crisi pandemica – non è più solo una questione di giustizia sociale e territoriale, ma è soprattutto una questione democratica, che non può essere ulteriormente elusa o rinviata. Che sia chiaro a tutti. Al sud, in Italia, in Europa.

 

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