Come degli studentelli del primo anno, le più grandi multinazionali del mondo sono terrorizzate da un professore universitario. Il docente si chiama Jeffrey Sonnenfeld, ha 68 anni e insegna leadership e management alla Yale University, prestigiosissimo ateneo del Connecticut. Dal 28 febbraio il professore, insieme a un piccolo team di esperti e studenti, pubblica sul sito dell’università l’elenco delle aziende che si sono ritirate dalla Russia in seguito all’invasione dell’Ucraina, e di quelle che invece sono rimaste: quest’ultima è la “lista della vergogna” ed esserci crea non pochi problemi. «Sentiamo ogni giorno aziende che sono furiose perché compaiono nell’elenco. Ci mandano esempi di minacce che stanno ricevendo da gruppi internazionali di hacker come Anonymous», ha detto Sonnenfeld in un’intervista all’agenzia francese Afp. Da un compassato docente della Yale ci si aspetterebbe un certo disagio per aver creato questa situazione. Invece lui aggiunge: «Non è un nostro problema. Questa è una scelta che hanno fatto. E se c'è un contraccolpo da parte della comunità, dovrebbero cambiare la loro posizione».

In effetti Sonnenfeld non corrisponde al cliché del professore di management, almeno secondo gli standard italiani. È spinto da una forte etica, fin da studente ha concentrato la sua ricerca sulla responsabilità sociale delle imprese e da anni cerca di convincere gli amministratori delegati delle grandi corporation che le aziende hanno un importante ruolo nella società.

Come ricorda il Washington Post, Sonnenfeld «ha passato quattro decenni a spingere i Ceo ad agire a beneficio della società, non solo degli azionisti, su questioni che vanno dal controllo delle armi al diritto di voto».

Fondatore del Chief Executive Leadership Institute, il docente della Yale ha promosso una serie di incontri con i dirigenti aziendali per affrontare questi temi, convinto com’è che la comunità imprenditoriale ha più influenza nel fare la cosa giusta rispetto agli ecclesiastici o agli attivisti. «Fortificare la pace nel mondo, proprio come fortificare la democrazia, è assolutamente una parte del dovere aziendale» sostiene Sonnenfeld.

L’esempio del Sudafrica

Scolpito nella sua memoria c’è il ritiro di 200 aziende occidentali dal Sudafrica per protesta contro l’apartheid: un episodio che lo galvanizzò, riconosce egli stesso. E l’invasione dell’Ucraina gli ha offerto l’occasione per “fare la cosa giusta”, ovvero creare uno strumento che spinge le imprese a lasciare il mercato russo per evitare un danno reputazionale.

Sonnenfeld è convinto che più la vita quotidiana sarà dura per i cittadini russi, più saranno motivati a rivoltarsi contro il presidente Vladimir Putin. «Quando questa lista è stata pubblicata per la prima volta la settimana del 28 febbraio, solo alcune decine di aziende avevano annunciato la loro partenza», spiega il professore.

«Centinaia di aziende si sono ritirate nei giorni successivi, e siamo onorati che il nostro elenco abbia contribuito a galvanizzare milioni di persone in tutto il mondo per aumentare la consapevolezza e agire».

Oggi l’elenco, aggiornato continuamente, contiene le risposte di oltre mille aziende. Più di 750 società hanno annunciato che stanno volontariamente riducendo le operazioni in Russia in qualche misura, al di là del minimo richiesto legalmente dalle sanzioni internazionali. Ma molte altre resistono imperterrite.

Alla costruzione della lista collabora un team di esperti e di studenti con background in analisi finanziaria, economia, contabilità, strategia, governance, geopolitica e affari eurasiatici. Parlano una decina di lingue, dal russo all’ucraino fino all’hindi, e utilizzano sia fonti ufficiali come archivi governativi, documenti fiscali, dichiarazioni aziendali, rapporti di analisti finanziari, Thomson Reuters e giornali di 166 paesi, sia fonti non pubbliche, tra cui una rete globale di oltre 150 insider aziendali e informatori.

La classificazione

Foto AP

All’inizio le imprese erano suddivise in due gruppi: quelle che se ne andavano e quelle che restavano. Ora, ci sono cinque categorie classificate dalla A alla F (la E non c’è): ottengono il voto più alto le aziende che interrompono totalmente gli impegni con i russi o escono completamente dalla Russia; la B spetta alle imprese che riducono temporaneamente la maggior parte o quasi tutte le operazioni mantenendo aperta però l’opzione per un ritorno; la C tocca alle compagnie che stanno ridimensionando alcune operazioni commerciali significative ma che ne continuano altre; la D è il voto assegnato alle società che rimandano i futuri investimenti pur continuando il business normale; la quinta categoria, F, raggruppa chi continua il business as usual in Russia.

Le multinazionali che hanno meritato il voto più alto nell’elenco aggiornato al 22 aprile sono 298: dalla società di consulenza Accenture alla Airbnb, dalla Reebok alla Bp, dalla eBay alla Exxon, dalla Heineken alla Vodafone. Tutte compagnie che hanno abbandonato il mercato russo.

All’altro lato della lavagna, tra i “cattivi” che hanno meritato la F, ci sono 189 aziende. Tra queste spiccano le francesi Auchan, Lacoste, Lactalis e Leroy Merlin, la tedesca Metro e naturalmente molte società cinesi come Alibaba o indiane come Tata Steel.

Sette imprese italiane bocciate

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Nella “lista della vergogna” compaiono anche sette società italiane: Buzzi Unichem, Calzedonia, Cremonini, De Cecco, Geox, Menarini, Unicredit, tutte “colpevoli” di continuare ad operare o a vendere in Russia. Complessivamente le aziende italiane nell’elenco sono 26.

Oltre alle sette con il voto peggiore, ce ne sono sei che stanno guadagnando tempo (voto D): Barilla, Campari, Delonghi, Intesa Sanpaolo, Maire Tecnimont e Saipem. Altre quattro stanno riducendo le loro attività nel paese (voto C): Enel, Ferrero, Iveco, Pirelli.

In cinque se ne stanno andando (Ferrari, Leonardo, Moncler, Prada e Zegna) mentre quattro ottengono il voto massimo avendo deciso di rompere ogni legame con la Russia e sono, secondo il team della Yale, Eni, Ferragamo, Generali e Yoox.

Per Sonnenfeld il ruolo della sua lista è dare ai manager il coraggio di andare avanti, anche a rischio di perdere miliardi di dollari in Russia. E agli aspiranti coraggiosi la forza per convincere i consigli di amministrazione a seguire l’esempio di chi si è ritirato.

Ci sono però anche le aziende che respingono questo approccio, sostenendo che chiudere le attività in Russia significa danneggiare i dipendenti locali. La risposta di Sonnenfeld è lapidaria: «È disgustoso che alcune di queste aziende cerchino argomenti umanitari o paternalistici», ha dichiarato il professore, che ha aggiunto: «Le società che restano minano l'intero scopo delle sanzioni economiche, che non è di portare conforto alla popolazione russa ma è di metterla a disagio; lo scopo è quello di aumentare il senso di stress nella società russa, in modo che venga messa in discussione la sua leadership». Provare cioè a rovesciare un regime con l’aiuto di una lista di nomi di società.

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