Un’irruzione in casa nel cuore della notte, poi dodici ore di interrogatorio in una struttura dell’intelligence egiziana prima di apparire in tribunale. In Egitto questo è quello che accade a migliaia di dissidenti politici e attivisti per i diritti umani. E, ancora una volta, è accaduto domenica scorsa a Mohammed Basheer. Ma il suo arresto, a differenza di tanti altri, fa notizia anche in Italia. Infatti Basheer è il direttore amministrativo di Eipr, l’Egyptian initiative for personal rights, l’organizzazione per i diritti umani di cui fanno parte alcuni membri del team legale di Patrick Zaki – il ricercatore egiziano arrestato lo scorso febbraio al Cairo – e dove lo stesso Zaki lavorava prima di partire per l’Italia per frequentare un master in studi di genere a Bologna.

Accuse politiche

Le accuse per Basheer sono molto simili a quelle formulate contro il ricercatore egiziano e vanno da concorso in associazione terroristica a diffusione di false informazioni sui social che mirano a destabilizzare la sicurezza nazionale. Come ha sottolineato l’Eipr in un comunicato, l’accusa non ha prodotto indagini o prove affidabili per sostenere l’arresto del direttore dell’organizzazione.

Il nome di Basheer è stato inserito nel caso 855/2020 in cui sono presenti altri noti attivisti dei diritti umani tra cui gli avvocati Mohamed el Baqer e Mahienour el Masry. L’Eipr afferma in un comunicato che durante l’interrogatorio gli inquirenti egiziani hanno chiesto a Basheer i dettagli sulla visita di alcuni diplomatici negli uffici dell’organizzazione lo scorso 3 novembre. All’incontro era presente anche l’ambasciatore italiano Giampaolo Cantini. Una delegazione di diplomatici stranieri in visita a degli attivisti per i diritti umani è una cosa abbastanza consueta in Egitto ma la propaganda del governo e dei media nel paese sui presunti rapporti degli attivisti con paesi stranieri è da sempre un modo per creare accuse e ritorsioni contro le organizzazioni per i diritti umani.

Analogie con il caso Regeni

La vicenda di Basheer, inoltre, ci riporta indietro all’aprile del 2016, quando Ahmed Abdallah, il presidente dell’Ecfr (l’Egyptian commission for rights and freedom) che rappresenta la famiglia di Giulio Regeni in Egitto venne arrestato nel pieno delle attività della procura di Roma che stava indagando sul caso e chiedeva una collaborazione dalla controparte egiziana.

Abdallah, accusato di attività sovversiva e partecipazione a manifestazione non autorizzata, venne scarcerato dopo cinque mesi, passati prima in una cella di pochi metri quadrati con 13 persone e poi in isolamento.

«Questo arresto è l’ennesima rappresaglia conto le persone che, con coraggio, in questo paese si occupano di diritti umani», dice Mohammed Lotfy, direttore esecutivo dell’Ecfr. «È una ritorsione, vuole essere un ammonimento per l’incontro con i diplomatici stranieri. È chiaro che le autorità egiziane non vogliono che gli attivisti parlino della situazione dei diritti umani con i rappresentati degli stati stranieri». Le organizzazioni per i diritti umani non hanno mai avuto una vita facile in Egitto e la situazione si è ulteriormente complicata dopo la rivoluzione del 2011. Nel giugno del 2013, durante la presidenza islamista di Mohammed Morsi, 42 persone, straniere ed egiziane, che lavoravano per diverse ong, vennero condannate a pene comprese tra uno e cinque anni di detenzione con l’accusa di aver ricevuto dei fondi illegali dall’estero. Gli imputati sono stati poi prosciolti alla fine del 2018 ma in questi cinque anni, dopo la presa al potere con un colpo di stato di Abdel Fattah al Sisi, il quadro per gli attivisti dei diritti umani si è ulteriormente aggravato e si è incrociato con la repressione politica messa in atto dal governo.

L’udienza su Zaki

Intanto, sabato prossimo è prevista l’udienza per il riesame della custodia cautelare di Patrick Zaki. Dopo il primo mese trascorso in due diversi penitenziari a Mansoura, Zaki è detenuto dal 5 marzo nel complesso di Tora al Cairo. Nell’ormai tristemente noto istituto, negli ultimi mesi la vita dei prigioneri è diventata ancora più dura. Come raccontato da diversi avvocati, dopo una rivolta nel braccio della morte, la sezione di Aqrab, i detenuti subiscono continue perquisizioni in cella mentre la pandemia di Covid-19, che a dispetto dei dati ufficiali non è affatto finita in Egitto, rende le condizioni dei prigionieri della struttura sempre più precarie.

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