Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del libro “Matteo va alla guerra”, scritto da Giacomo di Girolamo e pubblicato per Zolfo Editore. Un racconto unico, che ricostruisce dal punto di vista dei mafiosi, l'ascesa dell'ultimo dei Corleonesi negli intrighi siciliani.


Si trattava di ampliare il raggio d’azione. Matteo ci convocò e ci disse che aveva bisogno di un nostro parere. La cosa ci turbò, sì, ma ci riempì anche d’orgoglio, perché per la prima volta nella vita ci fu consentito di parlargli da una posizione di parità gerarchica, i nostri occhi alla stessa altezza dei suoi. E anche questo sembrava l’inizio di una fase nuova, e, se lo slogan non fosse stato abusato, avremmo potuto affermare che nasceva «l’uno vale uno di Cosa nostra».

La domanda di Matteo era: Dobbiamo fare degli attentati al nord, cosa ne pensate? Capimmo subito che la domanda era retorica: conteneva già la risposta, e la risposta era sì, perché lui aveva già deciso per noi. Ma non per questo ci precludemmo di capirne di più, e quindi, approfittando dello spazio che ci era stato concesso, porgemmo una domanda: perché? Eh, perché, ci disse Matteo, perché magari ci vengono a trovare e chiedono un compromesso. Altra domanda: chi? Ma Matteo aveva già esaurito le risposte e la pazienza.

Ci fu pertanto una riunione a Mazara del Vallo con Santo Mazzei, che era una figura che avevamo creato noi per fare uno sgarbo ai catanesi. Questo Mazzei aveva l’incarico di andare a Torino da un mazarese, Giovanni Bastone, che lì era sorvegliato speciale e che gli avrebbe fatto trovare dei candelotti di dinamite e dell’esplosivo. Con questo esplosivo Mazzei fece su e giù per l’Italia, il culo stretto per lo scanto di saltare in aria. Fabbricammo una piccola bomba che ci venne anche bene, era graziosa, pareva uscita da un laboratorio d’arte: sembrava una specie di razzo color oro, il nostro Little Boy.

Qualcuno suggerì di scrivere in piccolo qualcosa del tipo «Abbasso la mafia», o «La mafia fa schifo», per sfottere un po’ e anticipare i tempi di qualche anno, quando cioè sarebbe accaduto davvero che i primi a dire «abbasso la mafia» saremmo stati davvero proprio noi.

Su Santo Mazzei vale la pena spendere qualche parola in più, perché lui fu per noi una specie di cavallo di Troia. Avevamo un problema con i catanesi – se non si fosse ancora capito – che non erano proprio entusiasti entusiasti dell’idea di fare la guerra. E benché davanti ci avevano detto di sì, e avevano fatto le loro cosette – a Pippo Baudo, a questo o a quel politico – erano comunque rimasti sempre mezzo passo indietro, quasi a voler avere una via di fuga. Ecco allora l’idea: inserire nelle figure di riferimento catanesi Santo Mazzei, che apparteneva agli storici clan che si opponevano ai Santapaola. Insomma, gli avevamo messo la guerra in casa.

[…] Santo Mazzei, invece, accettava qualunque cosa gli dicessimo. A cominciare dalla bomba che abbiamo fatto mettere al giardino del museo, a Firenze, quella che poi non è esplosa. Ma ancora prima aveva fatto per noi degli omicidi a Rimini come a Torino. Insomma, era un uomo di fiducia. […].

E anche in questa terza parte della nostra storia, quella che ha portato agli attentati del 1993, c’è un punto zero che avete dimenticato, e porta la data del 5 novembre 1992. È lo stesso giorno che a Racalmuto, il paese dello scrittore Leonardo Sciascia, c’è una sparatoria che lascia a terra tre vittime. Ma noi ci muoviamo silenziosi, altrove, a Firenze. Coso, Mazzei, ha il compito di lasciare il nostro bellissimo ordigno d’oro al Giardino di Boboli, vicino Palazzo Pitti (scopriremo dopo che accanto c’era la statua del magistrato Marcus Cautius, l’inventore della cauzione...). Non deve esplodere. Deve solo fare scantare.

Paga pure il biglietto di ingresso al museo, per entrare nel giardino e piazzare la bomba: se la teneva bella dentro il giubbotto. Così ci fu la telefonata da un Autogrill a un giornale per dire che c’era una bomba. E la bomba fu trovata. Il giorno dopo aspettammo il comunicato alla radio per sentire la notizia: nulla. Al telegiornale dell’ora di pranzo, allora: nulla. E nei giornali non c’era nulla, e vabbè, magari sarebbe uscita il giorno dopo, perché non c’erano arrivati la sera prima. Nulla.

Nessuno ci aveva cacato, manco di striscio. Forse perché l’ordine era di non spaventare ancora di più la gente in quell’anno che era stato complicato per tanti motivi. Per noi però il test era andato bene. Avevamo trovato una strada. Dovevamo solo decidere cosa tirare giù. E questa volta davvero. La Torre di Pisa, diceva qualcuno. Il Colosseo, a Roma, aggiungeva un altro, ma quello è già bucato, boh.

Si inserì anche un momento malinconico, in quel ragionare di luoghi d’arte da radere al suolo, di bombe da mettere nei siti archeologici, ed era non il senso di colpa per l’attacco al patrimonio culturale, ma per una sorta di inutilità. In un Paese che da sempre mostra le sue macerie al mondo, noi avremmo contribuito ad aumentare il catalogo dei ruderi da offrire ai visitatori, avremmo aggiornato l’inventario.

Ma era un pensiero di pochi attimi, poi prevaleva la strategia. E ci rivolgevamo a Matteo perché era quello che sapeva, che teneva le fila. Poi ci fu un tale, Paolo Bellini, uno che aveva l’aria di nascondere tanti segreti nel nero della storia d’Italia, che ci contattò per mediare: se lo avessimo aiutato a trovare delle opere d’arte rubate, lui si sarebbe impegnato per favorire le scarcerazioni di alcuni boss.

Ci arrivarono, ’ste foto di oggetti d’arte rubati. Ma Matteo quando le vide ci disse: picciotti, ma vi pare che qui siamo il gruppo Tnt o Diabolik? Non è un fumetto. Noi abbiamo poche cose E ci diede un’altra foto, una specie di statua di un cane senza testa. Poi foto di anfore a gogo, piccole, grandi, pezzi di cose antiche. Questo avevamo. Ma non interessava.

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