Uno tsunami si propaga per migliaia di chilometri: le sue onde si infrangono su punti lontanissimi della costa. Il digitale, internet, il game, il capitalismo delle piattaforme o comunque vogliate chiamare quello che sta succedendo, è uno tsunami che da trenta e più anni, e con violenza crescente, si abbatte su ogni aspetto delle nostre vite: dalle relazioni sentimentali alla politica, dall’economia alla comunicazione, non c’è nulla che non ne sia stato toccato, che non sia cambiato, poco o tanto, da quando si è trovato il modo di digitalizzare l’informazione.

Ecco, tra tutti questi c’è un particolare punto di osservazione che a me interessa più di altri: quel piccolissimo pezzo di costa chiamato letteratura. Certo, è un interesse che nasce anche da banali accidenti biografici.

Quella della letteratura, del romanzo, dell’editoria, è la spiaggia in cui abito e sapere come si infrangerà qui l’onda della “disruption” è questione, se non di vita o di morte, quanto meno di affitto da pagare.

Il romanzo aveva il monopolio di quella particolare forma di sapere il cui oggetto è l’umano, la vita in generale e in tutti i suoi aspetti. Ma cosa fanno le piattaforme digitali e i social network se non questo: occuparsi dell’umano in ogni suo aspetto, accumulare dati sulle nostre esperienze e abitudini, costruire con i dati un duplicato della vita stessa?

Trasformare l’esperienza in qualcos’altro: lo fa il romanzo, trasformandola in narrazione; ma lo fa anche il capitalismo della sorveglianza, trasformando l’esperienza in… be’, alla fine in stock option.

La sorveglianza

Come funziona questa estrazione, l’ha raccontato molto bene Shoshana Zuboff nel libro Il capitalismo della sorveglianza appunto: ma quello era un saggio, raccontava la faccenda, per così dire, da fuori. Descriveva lo tsunami visto da chi sta sulla terraferma.

Mancava qualcuno che lo tsunami ce lo raccontasse in prima persona, cavalcandone le onde. Adesso ce l’abbiamo, ed è anche uno “dei nostri”, uno che viene dalla nostra stessa spiaggia, quella dell’editoria e della letteratura. Abbiamo mandato un nostro uomo oltre le linee nemiche. Anzi, meglio: una donna.

Questa donna si chiama Anna Wiener ed è l’autrice de La valle oscura (Adelphi, traduzione di Milena Zemira Ciccimarra), uno dei libri più divertenti e disperanti, intelligenti e sottili pubblicati sulla Silicon Valley.

Pur essendo il racconto dello tsunami dal di dentro, La valle oscura prende le mosse da tutt’altra parte, dalla terraferma. Nei primi anni Dieci, Anna Wiener era un tipico membro della «classe disagiata» (copyright Raffaele Alberto Ventura): giovane, iperspecializzati studi letterari alle spalle, un lavoro mal pagato come assistente in un’agenzia letteraria a New York. E la convinzione fortissima (e tipicamente millenial) che il lavoro debba coincidere con le aspirazioni, con la realizzazione personale e con le proprie convinzioni politiche.

Insomma, un perfetto rappresentate della classe media che si sta impoverendo, intaccando i capitali famigliari per sostenere stage non retribuiti o lavori più o meno creativi: «Gli unici modi per avere una carriera accettabile e di successo nel settore editoriale erano, in apparenza, ereditare un po’ di soldi, fare un buon matrimonio, oppure aspettare che i colleghi lasciassero il lavoro, o morissero».

La situazione non poteva durare. In fondo è come se un intero settore venga tenuto su economicamente da finanziamenti privati, cioè da questo esercito di manodopera sottopagata che tira avanti con la paghetta dei genitori o tre o quattro lavori contemporaneamente: «Era difficile conciliare uno stipendio netto di millesettecento dollari al mese con lo stile di vita mondano, festaiolo e agiato cui l’industria editoriale spingeva. (…) Era bello ricevere gratis le ultime uscite, ma sarebbe stato più bello potersi permettere di comprarle».

Finché il malessere di questa precarietà esistenziale la spinse a fare un colloquio per una start-up che voleva rivoluzione il mercato editoriale con una sorta di Netflix dei libri (Ma «non si trattava in pratica di una cinica appropriazione capitalistica del sistema bibliotecario pubblico?»).

Wiener non cita mai esplicitamente i marchi coinvolti, ma sono tutti ben riconoscibili, da Facebook, «il social network che tutti odiano», a AirBnb, «che offriva un’esperienza abbastanza diversa da destare interesse, ma abbastanza generica da essere rassicurante».

E in effetti, per quanto col senno di poi possa apparire un’idea assurda, intorno a quegli anni c’era veramente chi aveva lanciato una start-up per la lettura in streaming.

Wiener è scossa dai dubbi: fa bene ad accettare? Non starà tradendo i suoi amici e tutto quello in cui ha sempre creduto?

A convincerla alla fine non è solo lo stipendio da quarantamila dollari all’inizio per salire oltre i cento, una volta che si sarà trasferita in California e cambierà lavoro passando da una start-up all’altra, ma anche un’altra cosa. La sensazione che è lì, in quell’ambiente, che si concentrano le energie più vitali: «Ero stata viziata dalla velocità e dalla larghezza di vedute dell’industria tecnologica, dall’ottimismo e dal senso di possibilità che la caratterizzavano. Nel mondo dell’editoria, nessuno ch’io conoscessi festeggiava mai una promozione. Nessuno della mia età era entusiasta per quello che poteva riservare l’avvenire. L’industria tecnologica, al contrario, prometteva quello che all’epoca pochissimi settori o istituzioni potevano promettere: un futuro».

Le cose per lei andranno diversamente, ma non voglio svelare troppo di questo trattato di antropologia umana travestito da avvincente memoir.

(Spoiler: finisce male ma bene. Male perché nelle aziende tech in cui lavora incontra sessismo, culto religioso dell’arricchimento travestito da idealismo, cascami hippie e new-age per imbellettare dipendenze dal lavoro e vuoto esistenziale. Ma finirà bene perché lei intasca le stock option dopo l’acquisizione dell’ultima azienda per cui ha lavorato, torna a New York, scrive un libro di successo, diventa firma del New Yorker).

Quello che Anna Wiener riesce a raccontare molto bene nella Valle oscura è questo: la Silicon Valley, le piccole start-up, le grandi piattaforme digitali, l’intero ecosistema che vi ruota intorno, sono il laboratorio dove si sta disegnando il mondo.

Non il mondo di domani, ma quello di oggi, quello in cui già siamo immersi. È la forma, una forma del tutto peculiare, che ha assunto il capitalismo e che sta ridisegnando tutti i rapporti sociali.

Un’ideologia incarnata che dietro a parole d’ordine come innovazione, disruption, cloud e unicorni cela (e neanche tanto nascostamente) la sistematica estrazione di ricchezza da interi quartieri, città, classi sociali a vantaggio di pochissimi.

Ci siamo affidati a queste piattaforme mani e piedi prima di capire che sono uno straordinario creatore di diseguaglianze. «Chiedi perdono, non chiedere permesso» è il loro mantra.

Stupisce allora notare la schiera di politici italiani – magari di sinistra – che andavano in pellegrinaggio nella Valley come un tempo si andava a Mosca, totalmente succubi di un’egemonia che andrebbe decostruita.

Andare davvero in Silicon Valley

Per smontare questa visione del mondo, bisogna però capire come pensa davvero la Silicon Valley. Ci prova Adrian Daub, un altro “nostro uomo oltre le linee nemiche” (è professore di Letteratura comparata a Stanford), nel libro What Tech Calls Thinking.

Daub passa in rassegna i presupposti culturali e il retropensiero delle tech company: a cominciare dalla famigerata disruption, la distruzione creatrice.

Da metà degli anni Novanta e poi sempre più, via via che la bolla speculativa si gonfiava, la disruption è stata l’ossessione di decine di migliaia di start-up, convinte di star cambiando il mondo, di essere «lo spirito del mondo a cavallo» (così Hegel vedeva Napoleone quando conquistava l’Europa) in versione app.

In realtà, dice Daub, l’innovazione che producono è apparente, ciò che cambia è solo chi si arricchisce: «Uber dice di aver "rivoluzionato" l'esperienza del chiamare un taxi, ma in realtà quell'esperienza è rimasta sostanzialmente la stessa. Ciò di cui è riuscita a sbarazzarsi sono stati posti di lavoro stabili, sindacati e qualunque altro soggetto oltre a Uber che possa guadagnarci su».

René Girard è stato uno dei più importanti critici letterari del Novecento, oltre che tante altre cose.

Per molti anni (è morto nel 2015) ha insegnato proprio a Stanford, l’università più importante della costa Ovest, frequentata da migliaia di startupper, ingegneri, “founder” (i fondatori di start-up, figure centrali del culto tech).

Può sembrare strano che Girard, il teorico del “capro espiatorio”, il raffinato lettore di Proust, possa aver incrociato e influenzato questo mondo: e invece è proprio così.

Non solo Peter Thiel, cofondatore di PayPal, finanziatore di Airbnb, Spotify e Lyft, proprietario a un certo punto del 10 per cento di Facebook, fondatore di Palantir, società di analisi di dati utilizzata dalla Cia e dall'FBI, controverso sostenitore di Trump, ha frequentato i suoi corsi, ma è la natura stessa dei social a essere “un’ingenerizzazione” delle idee di Girard, in particolare quella del desiderio mimetico.

La valle perturbante

Il desiderio umano è triangolare: non desideriamo mai qualcosa direttamente, ma, anche se non ne siamo consapevoli, desideriamo il desiderio dell’altro, desideriamo quello che gli altri desiderano.

Emma Bovary non desidera avere un amante di per sé, ma lo desidera per essere come le eroine dei romanzi rosa che legge. C’è una descrizione più precisa del feed di Instagram?

Il titolo originale del libro della Wiener è Uncanny Valley, letteralmente la valle perturbante, inquietante: un’espressione che in cibernetica indica quando non riusciamo più a capire a occhio nudo se chi abbiamo di fronte è un essere umano o una simulazione al computer o una creatura artificiale.  

È il perturbante che emerge quando cadono le frontiere tra naturale e artificiale, tra umano e inanimato. Guardare in faccia la Silicon Valley, il digitale, lo tsunami che ci investe, vuol dire non essere più sicuri se chi abbiamo di fronte è ancora umano o qualcosa di radicalmente nuovo.

È qualcosa di affascinante e terrorizzante allo stesso tempo, seducente e distruttivo: come il sublime di cui parlava Kant, che ci attrae e trascende, bello e terribile. La «nuova era oscura» in cui siamo entrati è l’età del nuovo sublime. Buona fortuna.


Bibliografia


Anna Wiener, La valle oscura, Adelphi

Adrian Daub, What Tech Calls Thinking, FSG

Shoshana Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza, Luiss University Press

René Girard, Menzogna romantica e verità romanzesca, Bompiani

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