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L’elezione del Quirinale è importante, è il tema del momento della politica italiana, e tanto trovate infatti in questa edizione. Come pure trovate novità e approfondimenti sulla crisi ucraina, e sulla ricerca di una via diplomatica per disinnescarla.

Ma quindi voglio usare questo spazio per una riflessione della politologa Nadia Urbinati che va oltre i rumori dell’attualità. Ci interroga sul mondo che sarà, e che in gran parte già è, e sui diritti, i diritti dell’èra digitale. Il tema è la digitalizzazione della burocrazia coi rischi che comporta per la democrazia, e il punto di vista è quello politologico, perciò il dibattito è interessante.

Urbinati scrive che la digitalizzazione della burocrazia può essere una trappola. Talvolta è una forma di esclusione e discriminazione, delle persone anziane e non solo. Ma si parla di trappola perché può essere un espediente per tenere gli utenti fuori dal sistema di controllo e per aumentare il potere discrezionale di chi decide.

Capite quindi perché questa riflessione è dirimente.

Diceva Jeremy Bentham, uno dei padri fondatori dei sistemi amministrativi moderni, che solo chi sente dove la scarpa preme sa dire se quella scarpa è giusta e dove intervenire per aggiustarla. Il giudizio dell’utente di un servizio è il primo banco di prova, il primo esaminatore autorevole – il vero controllore. 

Costruire un sistema burocratico in modo da neutralizzare il giudizio dell’utente equivale a far saltare la logica del sistema, situando il giudizio non dove dovrebbe stare. Non ci si faccia ingannare dalla richiesta che spesso ci viene fatta di esprimere il nostro giudizio sul servizio: si tratta di un diversivo che fa bene prima di tutto a noi, perché ci dà sollievo illudendoci che abbiamo un potere determinante. La vecchia burocrazia archiviava le nostre lamentele; lo stesso fa quella digitale. 

Chiunque abbia sperimentato la digitalizzazione amministrativa – a partire dalle chiavi che servono per poterci entrare fino ai passi previsti per completare la navigazione – ha sperimentato anche la solitudine avvilente di stare di fronte a un ostacolo, probabilmente banale e facile da risolvere, che non si riesce a superare, e molto spesso è previsto che nessun umano venga in aiuto. 

Inoltre a volte la digitalizzazione dilata i tempi invece di accorciarli. Quanto tempo si spreca nel tentativo di cercare di parlare con un operatore, o di indicare il proprio problema a una voce metallica che non è stata programmata per capire quel che succede a noi o il bisogno che abbiamo? L’inefficienza e lo spreco di risorse (tra cui deve essere contemplato il tempo degli utenti) possono essere facilmente trasferiti alla digitalizzazione, che dunque non è necessariamente il coronamento della buona burocrazia se a monte non vi è un decisore che sia non solo mosso dalle ragioni dell’efficienza, ma inoltre disposto ad accettare il controllo non aleatorio dei cittadini-utenti. Questa è la condizione primaria della buona amministrazione di uno stato democratico.

In democrazia, conclude Urbinati, il ruolo dei sistemi digitali deve essere assistere la volontà e il giudizio umani, non sostituirli; e infine mai esonerare i decisori (che comunque esistono!) dal principio della trasparenza. Appellarsi al digitale come a una divinità non è un’attitudine razionale.

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