Qual è il futuro del referendum? È questa la domanda decisiva al termine anche dell’ultima stagione. Per rispondere è utile un rendiconto. I referendum hanno segnato la vita del Paese. La Repubblica nasce da una non facile e molto contrastata consultazione popolare il 2 giugno 1946. I referendum “abrogativi” hanno “innovato” la società e le istituzioni.

Grazie ai quesiti su divorzio, aborto, manicomi, beni comuni, lavoro e licenziamenti sono state consolidate o modificate o introdotte importanti leggi in materia di “nuovi diritti”, quando la cultura dei partiti sembrava refrattaria a recepirli. Come dimenticare che con i referendum elettorali è stato possibile superare la democrazia consociativa e bloccata per permettere, anche da noi, dopo la caduta del muro di Berlino e la crisi di “tangentopoli”, una democrazia bipolare dell’alternanza? O l’elezione diretta dei sindaci e dei presidenti di regione?

I referendum hanno toccato tutti i temi rilevanti della politica. Hanno prodotto mobilitazioni straordinarie. La discussione pubblica è stata spinta su temi che altrimenti sarebbero rimasti ai margini. Oltre a quelli ricordati, basti pensare ai referendum sulla “giustizia giusta” che, fin dalla tragica vicenda di Enzo Tortora, denunciarono i limiti di una magistratura dominata dalle correnti, autoreferenziale nei test di valutazione e di selezione interna, sostanzialmente irresponsabile di fronte ai non infrequenti errori giudiziari.

L’uso dei quesiti

Per non dimenticare i quesiti sulla rappresentanza sindacale o sulla tutela dei lavoratori, quelli che hanno sollecitato leggi moderne in materia di droghe leggere o per regolamentare il diritto alla “dolce morte”, come nello sfortunato quesito sull’eutanasia; e, ancora, il quesito che abolì il finanziamento pubblico dei partiti, clamorosamente tradito dal parlamento, quando introdusse i rimborsi elettorali, lasciando inevasa la questione, morale prima che giuridica, della “riforma della politica”.

Tutti hanno fatto uso dei referendum. Pensato come un potere dei cittadini per controllare i partiti e il governo, usati contro il “regime” consociativo (da Pannella e i radicali) per democratizzare le istituzioni, i referendum sono diventati sempre più spesso un dispositivo dei partiti. Dopo il referendum comunista sul blocco della scala mobile, da Berlinguer ritenuto un tradimento da parte dei socialisti della convenzione che voleva condivise a sinistra le politiche sociali, nella stagione del bipolarismo al referendum i partiti sono ricorsi per diversi scopi.

O per fare opposizione al governo (Rifondazione comunista nei referendum sociali; Italia dei valori contro le “leggi ad personam” del governo Berlusconi), o per ridefinire i rapporti di forza  dentro l’area politica di riferimento (Di Pietro nei quesiti contro la “casta” e la “flexsecurity”; il governatore Emiliano, con i quesiti sulle trivelle, per una resa dei conti interna al Pd con il premier Renzi; la Lega nei quesiti contro la riforma Fornero delle pensioni, contro il “Rosatellum” e ora, insieme ai radicali, per la giustizia giusta ma per giocare il ruolo di partito di “lotta e di governo”). Clamorosa fu l’iniziativa della Cgil (jobs act, voucher, appalti) di utilizzare il referendum per farsi “soggetto politico”, tentando così di occupare uno spazio, ritenuto vuoto, a sinistra.

Le cifre

Guardiamo ai numeri. Dal 1970 al 2022 sono stati presentati 666 referendum abrogativi, 23 referendum costituzionali, un referendum istituzionale e un referendum d’indirizzo sui poteri del parlamento europeo (1989). Quelli abrogativi, depositati in Cassazione, sono stati 197. 168 quesiti sono arrivati alla Corte costituzionale, che ne ha ammessi al voto solo 87. Al netto di quelli evitati prima della consultazione popolare, 72 volte sono stati votati.

L’astensione dal voto è diventato l’ostacolo decisivo: se anche stavolta il quorum non ci sarà, saranno 39 i referendum che hanno superato quel limite; 23 volte hanno vinto i sì, 16 i no. Il dato più significativo è che il quorum manca dal 1997. L’unica eccezione sono stati, nel 2011, i quesiti su acqua bene comune, nucleare e legittimo impedimento (fece la differenza la tragedia di Fukushima).

Oltre i numeri contano altri dati. I partiti non hanno mai amato i referendum, ritenendoli un intralcio alla loro “centralità” nella democrazia rappresentativa. Non hanno esitato a ricorrere allo scioglimento anticipato del parlamento per evitare referendum “scomodi” (1972: divorzio; 1976: aborto; 1986: giustizia giusta; 2008 legge elettorale bipartitica). Un ruolo chiave è stato giocato dalla Consulta che, salvo rare eccezioni, ha impedito il voto alle richieste più rilevanti, con sentenze dirette più a cercare “il pelo nell’uovo” che ad incoraggiare l’esercizio del diritto alla partecipazione popolare.

Il peccato originale

Quale futuro, dunque? La prima cosa è manutenere il referendum abrogativo. Tutti i cittadini democratici devono reagire all’azione sistematica di chi spinge a disertare le urne. Ciò non è solo politicamente scorretto, ma è incostituzionale perché impedisce ai cittadini di contare e di contarsi nelle urne e, alla lunga, perché annulla un mezzo di controllo della politica e di decisione popolare alternativo alla rappresentanza.

Che al referendum sia stato chiesto troppo, trasformato da mezzo per abrogare in un anomalo veicolo di legislazione, dipende da un peccato d’origine e da un’esigenza ineludibile. Il peccato è stato pensare, fin dalla costituente, che si potesse contenere la partecipazione dei cittadini dentro la vita dei partiti. L’esigenza, quella di dare voce ai cittadini e alle forze sociali che non si riconoscono nella politica dei partiti, del parlamento e del governo.

Vi è, insomma, un’eccedenza di democrazia, di domanda politica che proviene dalla società, in tutte le sue manifestazioni, che le istituzioni non possono ignorare. Proprio la crisi della politica, della rappresentanza, delle istituzioni, dei governi, dimostra che occorrono iniezioni di democrazia per innervare le radici della legittimazione. Per manutenere il referendum abrogativo sono necessari rimedi urgenti. La giurisprudenza costituzionale deve cambiare, agevolare i referendum mediante una collaborazione costruttiva con i promotori, che consenta di correggere i quesiti difettosi, per favorire il voto e non per impedirlo.

Nuovi modelli

Occorre modificare il quorum: o abolendolo del tutto o parametrandolo sugli elettori politicamente attivi (in base alla partecipazione alle elezioni politiche immediatamente precedenti). Tutto ciò, forse, non basta. È arrivato il momento di allargare gli spazi della partecipazione popolare diretta, mediante nuovi referendum, che superino i limiti di quello abrogativo, e rinnovino le traiettorie della sovranità.

Il problema del presente è la decisione politica, la sua incapacità di intercettare le domande sociali, specie sui diritti, di programmare credibilmente il futuro, di essere espressione di un rapporto costruttivo tra governanti e governati. Due sono le strade che altri paesi ci indicano. Una è introdurre un referendum preventivo, su leggi approvate e non ancora pubblicate, utile specie nelle materie più divisive.

L’altra, magari correggendo i progetti esistenti, il referendum propositivo, un’iniziativa che obblighi il parlamento a votare su proposte di legge popolare e, in caso di inerzia, che affidi l’ultima parola ai cittadini. La risposta alla domanda è, allora, nel senso che anziché chiudere la porta ai cittadini, è necessario aprire nuovi varchi democratici.

Il futuro prossimo ci riserverà una nuova stagione di riforme. Occorre cogliere l’occasione per rinnovare le istituzioni parlamentari e il governo, rilanciando i partiti, senza trascurare però che la qualità della democrazia dipende dal mantenimento attivo e vitale delle radici democratiche del potere. I referendum, nonostante tutto, hanno dato una buona prova. Non dobbiamo disperdere ma rilanciare questa esperienza.


Andrea Morrone è autore dw “La repubblica dei referendum. Una storia costituzionale e politica (1946-2022)”, edito dall’editrice Il Mulino. Il libr sarà presentato a Bologna, presso la libreria “La Feltrinelli”, Piazza Ravegnana, il 15 giugno alle ore 18:00. Saranno presenti la vicepresidente dell’Emilia Romagna Elly Schelin e Lorenzo Pregliasco.

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